Aldo Nove non ha certo bisogno di presentazioni, scrittore dalle molte vite e dai molti nomi, da quelli più in voga come pulp o cannibale ad altri più sottili e indefinibili come mistico, poeta, “lirico sublime” come lo aveva definito Enrico Ghezzi. Per Antonio Centanin (Viggiù, 12 luglio 1967) la letteratura è il suo campo di ricerca, il terreno dove scavare dentro se stesso. Un legame con la scrittura e con la realtà, segnato dall’innocenza quanto dalla ribellione. Da Woobinda e altre storie senza lieto fine, edito da Castelvecchi e ripubblicato da Einaudi nel 1998 con il titolo Superwoobinda, l’autore ha continuato il suo cammino letterario di narratore, firmando altri successi come Amore mio infinito, La vita oscena da cui è stato tratto un film nel 2014 diretto da Renato de Maria con Isabella Ferarri, Tutta la luce del mondo dedicato al poverello d’Assisi santo, e altri. Poco prima dell’emergenza pandemica era tornato in libreria con la sua ultima raccolta poetica i Poemetti della sera (Einaudi) che erano stati preceduti da Nelle galassie oggi come oggi. Covers (2001, con Tiziano Scarpa e Raul Montanari), Maria (2007), A schemi di costellazioni (2010), Addio mio Novecento (2014). Autore per il cinema e il teatro, collabora e scrive su diverse riviste. In ogni ambito in cui ha mosso la sua penna ha sempre dimostrato di essere uno scrittore eclettico, un intellettuale non diplomatico, un fanciullo visionario e malinconico. Inaspettatamente ha deciso di rilasciare questa intervista, cosa rara e difficile, che si è trasformata in una lunga conversazione, una chiacchierata intima e informale, un dialogo fatto di domande, silenzi, momenti di commozione sincera, confidenze, aneddoti personali, parlando di tutto e di più, passando da Wittgenstein al genio esilarante di Nino Frassica, dal capolavoro del cinema Berlinguer ti voglio bene alla mistica renana, dalla comicità assurda dei Fichi d’India alla politica internazionale, con la leggerezza del nonsense e la colta introspezione del ricercatore, canticchiando passi della musica leggera italiana dai Matia Bazar a Rino Gaetano, citando Kant o Bergonzoni. “C’è tutto un mondo intorno che gira ogni giorno e che fermare non potrai” cantava Antonella Ruggero e così Aldo Nove, e questo mondo di frasi scambiate in un pomeriggio di ottobre avevano un solo centro di gravità permanente, ovviamente la poesia, e poi dove ha immerso ultimamente l’anima del suo scrivere, nel suo Franco Battiato, edito da Sperling & Kupfer. E su questo lasciamo che siano le sue parole a raccontarci qualcosa in più della sua prospettiva Battiato.
Molti critici hanno interpretato il tuo percorso di scrittore parlando di una svolta mistica e intimistica rispetto ai tuoi esordi di cannibale. Ti riconosci in questa lettura e come la valuti?
Un’esigenza interiore. Il resto ha a che fare con le occasioni che ti si presentano nella vita. Woobinda è nato da un malloppone, composto da racconti pulp ma anche da testi teologici, che diedi a Nanni Balestrini e lui mi incoraggiò a scriverne altri in quella linea. Nel mio caso la mistica precede tutto quanto. Tu scrivi e come è successo a Battiato si è ritrovato appiccicato addosso una tale quantità di etichette, che possono avere una superficiale funzione giornalistica, ma spesso fuorvianti. Battiato dice non sono cattolico, non sono buddista, non sono attratto dalla falce e martello, né tantomeno dal fascio littorio, sono un artista. Quando fai arte come ricerca è diverso da quando intraprendi una ricerca seriale che ti fa star bene nei panni di una cosa. Mi viene in mente Faletti che ha espresso la tua artisticità in molti modi, facendo addirittura il comico, come anche Camilleri e tanti altri. Io non percepisco il concetto di evoluzione. È un continuo muoversi tra punti, che distingui confondi in senso etimologico. Se guardi il cielo osservi le nuvole e scrivi ciò che vedi nella modalità in cui ti si rappresenta. L’essere umano è qualcosa di molto composito, sia in generale che nello specialistico, soprattutto per chi ha voluto avere una cultura umanistica non mi ritrovo in un questo tipo di incasellamento, né di etichettarmi come cannibale, lo considero un gioco sociale, o una frase fatta. Lo stesso Giovanni Lindo Ferretti in Madre già esprimeva il suo elemento mistico, l’estrema varietà espressa dal gruppo CCCP. Il cannibale che diventa mistico, o viceversa, e tante altre possibilità. Osservo tutto questo come fenomenologie della comunicazione. Non sono un cannibale, non sono uno di sinistra diventato di destra, rispetto alle mie ultime dichiarazioni sulla politica americana, né un mistico etc. In questo momento storico è tutto molto delicato e ogni etichetta confonde e annoia. Battiato nel periodo dell’esplosione commerciale ha giocato moltissimo sul fraintendimento, può essere una cosa positiva stare sui limiti delle parole e giocare sul potere della comunicazione. Pessoa diceva che il poeta è un fingitore e che a volte si convince lui stesso di provare quello che dice di provare. C’è un bellissimo saggio di Massimo Cacciari sul labirinto filosofico, andrebbe studiato con molta attenzione per approfondire questa cosa. Per non citare Lacan, della prevalenza del significante sul significato.
Ti vorrei fare una domanda che mi interessa molto. Parafrasando Max Weber e il suo la politica come professione, per uno scrittore la scrittura è una professione o cosa? Mi interessa sapere il tuo rapporto con la scrittura, se scrivi anche solo per te stesso, se ci sono cose che hai scritto ma che non pubblicherai. Comunicare all’esterno è l’unico modo di essere scrittori o anche usare la scrittura come uno specchio rifrangente di sé?
Non vedo le opposizioni che mi stai proponendo, quando scrivi per te, anche il soliloquio è un colloquio tra te e te, è un confronto tra quello che senti nel momento, qualcosa che intuisci come tua essenza, poi questo può venire messo in comune con altri, che sono pensanti o senzienti. Non ho mai scritto però pensando ad un pubblico, ho avuto semmai un interlocutore ideale. In Battiato, per esempio, alcuni dei suoi testi, E ti vengo a cercare o L’animale pongono questa questione, questa ambiguità, a chi si sta rivolgendo, si sta rivolgendo a una donna o alla sua parte spirituale? I poeti d’amore della cerchia di Dante avevano lo stesso problema. Così Lacan con il suo “Chi parla quando io parlo?”, a un livello profondo cambia tutto. Battiato è riuscito in qualche modo a proiettare in chiave popolare questa profondità.
Nella copertina del tuo libro c’è scritto “Franco Battiato di Aldo Nove”. Da amante del cinema di Fellini mi ha richiamato alla mente subito il “Satyricon” di Fellini. Anche se è un parallelismo forse forzato mi domando se anche nel tuo caso si tratta di una personale trasposizione di un classico, in questo caso della cultura musicale italiana e non solo. In qualche modo hai voluto imprimere una tua personale visione su Franco Battiato?
Hai detto una cosa molto acuta. Inizialmente il progetto era Franco Battiato, una biografia di Aldo Nove. Quello che mi piacerebbe essere riuscito a fare è un dialogo tra due anime, non ha a che fare col possesso, ma con la mia sensibilità che si è incontrata con gli stimoli che Battiato mi ha dato e continua a darmi. Riuscire a comunicare questa cosa veramente vorrebbe dire che il libro ha funzionato.
Allora hai cercato di far vedere quanto una persona, un artista come Battiato sia molto più avvicinabile diciamo con un atto d’amore verso di lui che non con una mera analisi critica?
Credo che la figura di Battiato sia abbastanza unica nel panorama culturale italiano. In tutto il suo percorso, anche i testi meno popolari sono passati nel costume e nel patrimonio collettivo italiano, e così è passata a tutti la sua ricerca e le esperienze artistiche personali, che ha avuto con John Cage e Stockhausen, o sul lato spirituale con Panikkar e altri. Anche se a partire dagli anni 70 è poco conosciuto, si sta riscoprendo quella sua fase. Come e viceversa Nanni Balestrini che ha lavorato tutta la sua vita sul parlato e la trasformazione del parlato in letteratura, nel parlato valgono anche le espressioni facciali, i comportamenti, i momenti di silenzio, così in un artista c’è sempre un lavoro di rettificazione, di traduzione.
Parli spesso di maestri a cui devi molto umanamente e artisticamente come Balestrini, De Angelis, Sanguineti e altri. Mi viene in mente Dino Campana, nel 1946 le sue ossa vengono collocate all’interno della chiesa di San Salvatore a Badia a Settimo, raggiungendo così la loro dimora attuale, in seguito ad una cerimonia alla quale partecipano numerosi intellettuali dell’epoca, tra i quali Eugenio Montale, Alfonso Gatto, Carlo Bo, Ottone Rosai, Pratolini ed altri, presenti a rendere omaggio ai resti terreni del poeta, in una comunione mistica che la poesia rendeva possibile. La letteratura può costruire un’amicizia che travalica il tempo e lo spazio, una comunione diversa, unire a distanze abissali anche?
Tutte queste persone si sono addentrate dentro la questione del linguaggio, un lavoro molto orientato su tematiche diverse, rimane costante lo scavo nella lingua. Jung diceva che la cultura è parlare con i morti e viceversa si può dire che anche i morti parlano con noi. È bellissimo leggere le confessioni di Sant’Agostino, un diario così intimo e poterlo sentire così vicino a distanza di ottocento anni. Potremmo notare che per secoli la cultura è stata orale, pensa alla questione omerica. Ad un certo punto qualcuno ha trasformato il testo orale in scritto. Così la poesia è sempre stata accompagnata dalla musica. Penso a molte figure Bob Dylan, Lou Reed, Leonard Cohen, o Pietro Metastasio, Lorenzo Da Ponte, che hanno sempre scritto in sintonia con la musica. Nella poesia l’elemento musicale è sempre presente, come timbrica e ritmica. Per me è stato fondamentale aver letto gli autori che mi hanno segnato, Balestrini, Sanguineti, De Angelis e non ultima Alda Merini e poi esserne diventato amico. Il rapporto umano è qualcosa che ha a che fare con l’essere maestro alla Paolo Conte, “il Maestro è nell’anima e dentro all’anima per sempre resterà”. Chi ti aiuta nel confronto a tirare fuori il maestro che è dentro di te, sennò è uno che semplicemente ti trasmette dei dati. Così vale anche per Battiato, i maestri li si possono evocare, non raccontare, sono due cose diverse. Tuttavia con Sanguineti non sono mai riuscito a dargli del tu.
Un altro parallelismo che mi viene in mente tra te e Fellini è quello del rapporto con i territori dell’infanzia, dimensione sognata con i territori che uno ha amata. Fellini per girare Amarcord dice che aveva ricreato Rimini attingendo al sogno e alla fantasia, con un confronto solo ideale con la Rimini reale. Anche per te Professore di Viggiù?
Penso anche all’ottimo rapporto e all’importanza di Tonino Guerra in Fellini, alla creazione del suo elemento di visionarietà onirica. Amarcord e Otto e mezzo sono volutamente e esasperatamente sgangherati sul piano della narrazione, ma non dell’evocazione che ti consente di recepire una sintesi emotiva molto più forte di una storia. Quando cresci, e così vale per tutti gli uomini, il mito delle tue origini si rinsalda sempre proprio in qualità di mito. Il mito è parola. È un universo interiore di cui parli sennò sei una guida turistica, fai toponomastica. Mia madre era sarda e ricordo tutte le estati che andavo in questo paesino nel cuore della Sardegna, dove c’era un solo telefono in tutto il paese e un solo bar, tutto questo non c’è più materialmente, ma dentro di me è potentissimo. Così Viggiù, quello che intensamente sento è il mio vissuto nel periodo della vita in cui sei più ricettivo, come nel periodo dell’infanzia.
In questo senso fare poesia è rimanere all’infanzia?
Carmelo Bene parlava di de-pensare. Quando scrivo poesia sono mosso da un sentire molto forte e poi in qualche misterioso modo la cosa succede da sé. È qualcosa di interiore e spirituale, sgorga pura dall’interno senza la mediazione dell’intelletto. Nascono una serie di suggestioni, che sono costruite bene nella misura in cui le senti. Quando scrivo qualcosa che sento in modo molto forte poi arriva anche agli altri, un contagio, parola che in questo tragico momento storico purtroppo assume altre valenze.
Siccome sei anche un narratore, uno scrittore di romanzi, come scegli prosa o poesia per esprimerti?
Balestrini mi disse: invece di andare a capo scrivi tutto di seguito, così l’etichetta romanzo ti permette di avere accesso a un pubblico più ampio. Steiner basandosi sugli studi di Goethe contrappone due dimensioni, quella della sensibilità o chiaroveggenza e quella razionale. Mi sento molto più vicino alla prima dimensione, che non alla seconda. Anche le mie letture propendono in quel senso, leggo mistici o forme anomale di ricerca, adoro il Finnegans Wake di Joyce, ho letto e riletto Beckett o Alfred Jarry, un altro punto di riferimento letterario del novecento.
Nonostante la tua propensione mistica e visionaria, hai scritto cose per il teatro con risvolti sociali e un’attenzione particolare alle fasce più deboli della società. Credi che il teatro sia la dimensione mancante alla pagina scritta per poter parlare di certe tematiche, renderle vive e in un certo qual modo più fruibili?
Anche se hai un’inclinazione mistica hai comunque a che fare con un certo tipo di quotidianità, socialità e politica. Anche Battiato con Povera patria, o Inneres Auge ha descritto le contraddizioni della società. Le cose che ho scritto per il teatro sono comunque adattamenti e derivati da testi che ho scritto in forma narrativa o poetica, ma questo è solo un tipo di procedimento. Il teatro è incontro, è il qui e ora, il teatro è mettersi in in gioco in un rito collettivo, in cui si vive assieme per quanto possa essere ancora possibile nel momento ultra delicato in cui ci troviamo. La televisione con la sua comodità è stata anche una disgrazia sotto altri punti di vista per il teatro, non è stata di aiuto e non c’è stata una mediazione tra le due modalità pienamente riuscita. Da piccolo c’era la serata di prosa e potevi vedere Čechov, Pirandello, ma il teatro è un’altra cosa, è essere lì tutti assieme.
Si nota che sei uno scrittore che ricerca il contatto col pubblico, il confronto e l’incontro, anche dall’uso che fai dei social. Com’è la tua giornata tipo, anche mentre elaboravi il libro su Battiato?
Mi piace passeggiare, incontrare gente, confrontarmi con gli altri. Per Battiato invece mi sono quasi chiuso in casa, isolato, ero costantemente assorbito dall’oggetto della mia ricerca. La prima volta che ho ascoltato Battiato avevo sette anni, e il Battiato sperimentale mi ha sconvolto e da allora l’ho ascoltato sempre. Scrivendo su di lui ho fatto una full immersion e aperture continue, che Battiato non solo rende possibili ma stimola, cioè se ascolti Battiato poi ascolti Wagner, Stockhausen, anche se a Beethoven e Sinatra preferisco l’insalata. Così canta Battiato in Bandiera bianca, il nonsense o il quasi nonsense viene lasciato in mano all’ascoltatore, che può decidere cosa vogliano significare. Alle scuole elementari avevano dato un tema e Battiato scrisse: io chi sono? Poi decenni dopo è diventata una sua canzone. Tutto il lavoro di Battiato è un socratico conosci te stesso. In una sua intervista ha detto alla base di tutto c’è la bibbia. Anche lui un tradizionalista, aperto all’esoterismo che spazia dall’islam all’induismo, al buddismo. Ha intervistato un monaco buddista, uno scienziato ateo che si interessa di questioni trascendentali, ha intervistato un prete. Sento molto vicino la sua spiritualità e il suo ecumenismo. Tutto ha una radice comune fortissima. La spiritualità unisce le religioni nate in varie contesti storici. Non sappiamo poi chi ha influenzato chi e come, il tutto si perde nell’ancestrale. Se scavi a fondo ti ritrovi nello stesso luogo. Mi piace molto Papa Francesco, in questo senso, per la sua ricerca, non sincretista né tantomeno new age, che Battiato per esempio descrive nella canzone Magic shop. Piuttosto si tratta di riconoscersi fratelli nella differenza, per usare una terminologia Bergogliana. È fondamentale la differenza, è importante, altrimenti siamo nella Metropolis di Un’altra vita. “Un rapimento mistico e sensuale. Mi imprigiona a te.” Così scrive nella canzone E ti vengo a cercare. A te chi? Donna cui mi rivolgo o a te, come diciamo all’occidentale, Dio? Non è chiarito nella ricchezza dell’ambiguità. Lo stesso procedimento nella bellissima La cura, è il soggetto ad essere messo in gioco. Chi è che parla? È dio che parla all’uomo? Il suo amore così forte nei confronti di un essere seppur imperfetto e fragile, per fargli dire certe parole così tenere. Il riferimento della morte della madre può esserci stato come elemento umano e biografico scatenante. Ma il significato si arricchisce di ben altro. Per me un testo eccezionale.
Chi altri personaggi musicali all’estero hanno avuto un impatto su di te come Battiato? Scriveresti su di loro?
Se dovessi fare un altro libro tipo questo, biografia di Aldo Nove, mi piacerebbe farlo su David Bowie o Lou Reed, giganti entrambi. Sul piano poetico Lou Reed è uno dei grandissimi. Unico Bowie sul piano sociale del costume e dell’impatto musicale. Ovviamente Rispetto a Battiato sono percorsi differenti. Sono mondi diversi. Non puoi pensare Lou Reed senza Andy Warhol. Non solo come cultura di riferimento ma anche musicalmente. Battiato se senti Le nostre anime usa diverse tonalità, anche se tendenzialmente rimane a un livello quasi parlato. Lou Reed in molte canzoni parla ad esempio, non canta, ma come mi diceva la mia amica Caterina Caselli, è talmente pastosa la grana della sua voce che esprime profondamente, incanta. Poi ci sono i geni, tutti amici di Battiato, le tre D, Dalla, De Gregori e De André. De Gregori appare in “Musikanten” di Battiato per esempio. Con Dalla erano perfino amici e vicini di casa. Verso De André poi Battiato ha sempre avuto e trasmesso profonda stima e affetto.
Ecco Aldo Nove e la sua prospettiva Battiato.