OFF-Identikit è l’opera dedicata a Francesca Alinovi, premiata come miglior documentario all’ultima edizione del Festival Internazionale Docudonna.
La regista, Veronica Santi, è una brillante collaboratrice di Artribune, critica d’arte e curatrice, oltre che scrittrice e fondatrice dell’Associazione Off Site Art.
La sua disamina è importante, perché riesce a riscattare, dalla grigia polvere degli archivi, una delle figure meno conosciute, ma più significative della cultura italiana degli anni settanta; Francesca Alinovi è stata, infatti, una critica attenta, dallo sguardo limpido e incontaminato, capace di rintracciare talenti e aprire nuove frontiere nella storia dell’arte, occupandosi attivamente di periferie delle avanguardie, sino ad allora emarginate dall’élite culturale dell’epoca.
A New York aveva frequentato artisti della New Wave, del Lower East Side e, soprattutto, aveva scoperto i graffiti del South Bronx.
In Italia aveva curato le Settimane Internazionali della Performance per l’assessorato alla cultura di Bologna, aveva scritto il manifesto del movimento artistico dell’Enfatismo, si era dedicata alla ricerca e all’insegnamento, fino al suo assassinio, avvenuto nel 1983, quando aveva solo 35 anni.
Renato Barilli, Roberto Daolio, Alessandro Mendini, Loredana Parmesani, Franco Quadri, riuniti in un comitato a lei dedicato, hanno istituito un Premio a suo nome da conferire ad artisti meritevoli, dediti alla ricerca sperimentale.
Ma, per meglio comprendere la complessità e l’alta caratura di questa figura della nostra storia dell’arte, abbiamo intervistato la regista che ha voluto contribuire a renderle giustizia, ponendo nuova luce sul suo lavoro e sul suo indiscusso talento.
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Veronica Santi, “OFF-Identikit” è stato da poco premiato come il miglior documentario dell’ultima edizione di Docudonna, Festival Internazionale del documentario al femminile. Chi era, secondo lei, Francesca Alinovi, la discussa ed eclettica protagonista della sua opera?
Francesca Alinovi è stata una critica d’arte attiva nel periodo post-punk (1977-1983). La mostra “Arte Di Frontiera” da lei ideata e organizzata postuma la sua scomparsa, è un primato internazionale nella storia dei graffiti e del writing. La sua ricerca è stata inquadrata nella critica d’arte militante, proprio perché verteva sul contatto diretto con gli artisti e la documentazione / comprensione della loro pratica. La sua vicinanza personale e professionale a tutti i movimenti di avanguardia del periodo la fece emergere per le sue doti di talent scout e, al contempo, la sua preparazione da storica dell’arte risuonava in modo prepotente in ogni suo testo critico, articolo, recensione o mostra da lei curata.
Come mai ha dedicato i suoi studi a questa particolare intellettuale?
I testi di Francesca Alinovi sono folgoranti, la sua scrittura e la sua visione sul contemporaneo ha affascinato me così come ha affascinato la maggior parte delle persone che sono riuscite a reperire e leggere i suoi testi. L’ingiustizia per cui una intellettuale di indiscussa importanza storica debba scomparire dai nostri libri di storia dell’arte è inaccettabile agli occhi di chi, come me, è cresciuta con internet. Non mi lega a lei nessun tipo di legame affettivo, quando Alinovi morì io avevo 2 anni. Dunque la mia è stata prima di tutto sete di conoscenza su un’autrice che mi interessava per i miei studi professionali, poi, di conseguenza, è diventata una battaglia, cioè un’operazione necessaria che, per varie vicissitudini, è stata portata fino in fondo da me, ma che era nei desideri di moltissime altre persone. E, visto come sono andate le cose, mi piace ricordare le cose fatte e gli alleati, più che i nemici.
Cosa voleva dire, negli anni settanta del novecento, essere una donna italiana profondamente impegnata nell’ambiente artistico internazionale?
L’onda femminista stava già per infrangersi sulla società attraverso leggi che sono pietre nella storia della nostra liberazione, ma non si può dimenticare che i diritti acquisiti hanno necessitato di anni e anni di lotte. Se pensiamo che in Italia la riforma del diritto di famiglia è del 1975 o che le disposizioni sul delitto d’onore sono state abrogate il 5 agosto 1981 (!!!)…beh mi sembra evidente in che tipo di società è cresciuta e si è fatta strada Alinovi. E poi, un conto è ottenere dei diritti e un conto è cambiare una mentalità che ha radici secolari. È un dato di fatto che le donne non venissero considerate come meritevoli di essere ricordate in campo artistico, nonostante il loro ruolo fondamentale. E qui vorrei ricordare Lea Vergine, da poco scomparsa. Con la sua mostra del 1980 “L’altra metà dell’avanguardia”, Vergine per la prima volta puntò un faro sulla ricerca straordinaria di donne artiste che avevano militato da protagoniste all’interno dei movimenti di avanguardia della prima metà del ‘900…ma che nessuno conosceva. E non si trattò di mera rivendicazione, ma di conoscenza.
Nel caso specifico di Francesca Alinovi c’è oltretutto da ricordare che lei conduceva una ricerca da vera outsider, non militava nei circuiti femministi e all’Università insegnava la cultura della strada. A 35 anni non era sposata, non aveva figli, prendeva l’aereo da sola, stava un paio di mesi a New York, si avventurava da sola nel Lower East Side o nel Bronx e scovava artisti che in un soffio di anni avrebbero segnato la storia internazionale. Sia in America che in Italia si occupava di movimenti che all’epoca erano veramente emergenti o considerati secondari (dal teatro ai fumetti, dalla musica all’arte metropolitana), per cui doveva doppiamente farsi sentire, sia perché donna, sia per il tipo di ricerca che conduceva.
Quale era la spinta propulsiva nelle ricerche della Alinovi? Quali competenze e sensibilità le permettevano, come ricercatrice, di affacciarsi sull’arte a lei contemporanea con uno sguardo tanto lucido da intercettare talenti e nuove correnti artistiche?
Rispondo con le parole di Alinovi stessa, in una intervista del 1980 a Loredana Parmesani sulla mostra “Italian Wave” da lei curata presso la Holly Solomon Gallery di New York:
“Quello che ha colpito principalmente i visitatori della mostra di New York è stata la sua sorprendente compattezza nonostante le singole diversità individuali. A me premeva dimostrare che non c’era nessuna scuola, solo spontanee convergenze su un comune clima di sensibilità. E io mi sono considerata come uno strumento catalizzatore di queste esperienze. Io mi sono comportata come un radar, pronta a captare quanto mi accadeva intorno. […] Attualmente la critica d’arte si configura sempre più come “marketing” e campagna pubblicitaria di prodotti già confezionati. Personalmente mi sentirei molto annoiata a dovermi limitare a fare l’agente pubblicitario di questo o quel pacchetto preconfezionato (a questo proposito gli americani hanno già formulato la nozione azzeccatissima del package). D’altra parte non ho neppure l’intenzione di mettermi io stessa a confezionare dei prodotti (altrimenti avrei fatto la magliaia). Ho scelto questo mestiere perché non andava verso il senso comune. Ecco, a me piace non aver buon senso”.
Secondo lei, quanto è ancora difficile per una donna, oggi, esporsi e dare libera espressione al proprio linguaggio stilistico ed intellettuale?
Viviamo in un sistema patriarcale e maschilista che si porta sulle spalle secoli di soppressione del pensiero femminile. Questo è un dato di fatto e si ripercuote in tutti i settori della società e del lavoro. Alcuni settori poi sono più colpiti di altri perché ancora le donne sono in netta minoranza. Il cinema è uno di questi: quante donne registe riescono ad emergere nel mainstream? A quante viene dato accesso alle risorse per finanziare i loro progetti artistici? A quante viene data l’opportunità di sbagliare?
Noi che lavoriamo nella cultura non viviamo su Marte. Il problema è ampio e va guardato in faccia. Se negli anni ’70 le nostre madri hanno lottato per i nostri sacrosanti diritti, noi oggi non ci possiamo rilassare e dobbiamo continuare a lottare per la nostra sacrosanta libertà da certe imposizioni e da una certa mentalità. È una battaglia diversa, ed è la nostra battaglia. Il movimento #metoo è stato importantissimo e ha evidenziato problemi contingenti e necessità sul luogo di lavoro… Tuttavia in Italia il dibattito si è trasformato nella lapidazione di piazza ad Asia Argento… Il problema poi non è solo locale / nazionale, non si possono ignorare i ponti di empatia e solidarietà transnazionale: dalle donne del Rojava alle donne cilene del movimento Las Tesis, e poi le bielorusse e le polacche… e non dimentichiamoci le italiane di Non una di meno. Conoscere, sostenere e partecipare a questi movimenti è fondamentale.
Credo infine che la grande forza dei movimenti femministi di oggi stia anche nella comprensione diffusa che il sistema patriarcale e maschilista non faccia vittime solo tra le donne. Basti ascoltare come i parlamentari stiano discutendo proprio in questi mesi su una legge così fondamentale come quella contro l’omotransfobia (approvata alla Camera, in attesa dell’approvazione del Senato). La discriminazione è discriminazione sempre.
Quali sono i suoi progetti futuri in campo documentaristico?
Sto lavorando al mio secondo lungometraggio (stavolta è una co-regia con Diego La Chioma) che, giocando tra realtà e finzione, racconta la sesta edizione del Format Raid, realizzata all’Aquila circa un anno fa.
Parallelamente sto realizzando dei format video o dei mini-doc per gallerie, musei, artisti, residenze, così da cercare di far vivere la cultura almeno nel mondo digitale, arricchendola di una certa qualità video e autorialità. A me piace raccontare attraverso il linguaggio video la pratica artistica degli autori che incontro, la vivo come una forma aggiornata di critica d’arte. Nonché di resistenza. Con la pandemia, la situazione italiana da precaria è divenuta tragica e nell’arte visiva questo dato emerge con ancora più forza: siamo gli invisibili del compartimento cultura, non abbiamo nessun ente o fondo specifico che ci possa garantire un minimo di rappresentanza e aiuto reale.
Grazie.
Ines Arsì