Film disponibile in streaming su OpenDDB – Distribuzioni dal basso
(https://www.openddb.it/film/the-milky-way/)
The Milky Way è stato realizzato attraverso una campagna di crowdfunding e prodotto da una casa cinematografica indipendente che si dedica principalmente a temi di inchiesta; è un film che abita, si insedia, con le sue riprese documentaristiche e le sue digressioni storiche in graphic novel animata, a cavallo della frontiera tra Italia e Francia, in un territorio estremamente ostile da attraversare clandestinamente e marcatamente turistico da vivere quotidianamente.
Il racconto valica confini geopolitici e ideologici spesso difficili da oltrepassare, grazie alle testimonianze raccolte, tra gli abitanti di questi luoghi e i pericolosi sentieri di fortuna che vengono percorsi in notturna dai migranti, sulle alte montagne che costeggiano gli impianti sciistici de “La via lattea”.
Abbiamo intervistato per voi il promettente regista, Luigi D’Alife, da sempre attivamente impegnato nel documentare i luoghi di frontiera.
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Luigi D’Alife, la sua attività di documentarista e regista la conduce a viaggiare, oltrepassando i confini geopolitici e quelli della cronaca ufficiale, a favore della testimonianza diretta del reale. Quale urgenza interiore la spinge a proseguire in questo itinerario che sta personalmente costruendo, attraverso le testimonianze e le storie che raccoglie?
Sono profondamente convinto che strumenti come quelli del documentario e del racconto del reale possano incidere profondamente sul quotidiano che viviamo, producendo un impatto e favorendo cambiamenti sociali. Sento forte la necessità di produrre una narrazione che non sia parte del “sistema” e del flusso principale di informazioni, ma che attraverso l’esperienza diretta possa creare empatia, coscienza e attivazione nelle persone. La mia personale ricerca parte sempre da un assunto molto semplice: provare a dare voci a tutti quei soggetti, che per un motivo o per l’altro, vengono sistematicamente silenziati. Potremmo definirli in molti modi, per me significa essere sempre dalla parte degli ultimi, degli oppressi.
Il suo ultimo lungometraggio arriva dopo una serie di altri lavori che l’ hanno vista impegnato in diverse zone critiche del mondo. Che idea ha maturato, del pianeta in cui stiamo vivendo, attraverso questa esperienza?
Non credo che le esperienze che ho vissuto direttamente, per quanto forti possano essere, siano esaustive per riuscire a dare una lettura di quel grande puzzle che è il mondo di oggi. Sicuramente quello che appare evidente, credo non solo a me, è che viviamo in pianeta in cui disuguaglianze e ingiustizie sono sempre più profonde. Continuo a credere che il valore dell’esperienza, di trovarsi faccia a faccia con le brutture del mondo e del sistema in cui viviamo, possano indurre le persone a battersi per cambiare le cose. Dopo tutto, come per mille altre cose, si tratta semplicemente di scegliere da che parte stare.
Il film è stato prodotto da una casa di produzione indipendente e interamente realizzato attraverso una campagna di crowdfunding. Vuole raccontarci come è nato e si è sviluppato il progetto?
Personalmente ho iniziato a seguire questa storia verso la fine del 2017. La prima volta che ho messe piede dentro la sala d’aspetto della stazione di Bardonecchia era quasi Natale. C’era un via vai frenetico visto il periodo di vacanza. Mentre tutto intorno scorreva, una mezza dozzina di ragazzi attendeva. Il loro obiettivo era passare il confine, andare in Francia o ancora oltre.
Ed è stato in quel primo contatto, quello in cui superi l’impasse e dici “tutto bene? Hai bisogno di qualcosa?”, è stato in quel momento che è nata questa storia. O almeno la necessità di raccontarla.
Attraverso il mio primo lungometraggio “Binxet – Sotto il confine” avevo iniziato a collaborare con OpenDDB – Distribuzioni dal basso e SMK Factory. Quando nell’estate 2018 ho iniziato a immaginare di realizzare un documentario su questo tema, pensarlo di fare insieme è stato quasi naturale. La prima volta che abbiamo discusso insieme di una bozza di soggetto era Ottobre 2018. Neanche 2 mesi dopo iniziavamo le riprese del film.
Anche The Milky Way, come tutti le produzioni SMK Factory, è stato realizzato attraverso la co-produzione popolare tramite crowdfunding. Questo modello è per noi portante perché non si tratta solo di una raccolta fondi, ma anche già dello sviluppo di un percorso distributivo. Molte delle date che siamo riusciti a fissare non sarebbero mai nate senza tutto il percorso di condivisione prima del film, che crea un’aspettativa e una comunità attorno ad esso e ai suoi temi.
“The Milky Way” racconta il superamento delle frontiere, l’istinto naturale della sopravvivenza che, dai tempi dei tempi, accompagna l’uomo, motivandolo ad elevarsi oltre le leggi canoniche, in virtù di una legge ragionevolmente più alta, a salvaguardia della vita. Ma cosa spinge veramente un uomo, oggi, ad attraversare il deserto, il mare e le montagne innevate per raggiungere una terra nuova, in cui sarà altrettanto difficile adattarsi? Ha letto una risposta negli occhi dei migranti reduci dalla loro personale odissea?
Credo che non ci sia una risposta univoca a questa domanda, questo perchè, anche se può sembrare scontato, ognuno ha i propri motivi; il raggiungere amici e/o parenti, credere che in un dato paese ci siano più possibilità lavorative o spostarsi per questione di lingua, solo per citarne alcuni. Oltre a questi motivi che possiamo iscrivere come spinte “soggettive”, ce ne sono certamente altre, più “oggettive” o meglio sistemiche. Per quanto riguarda L’Italia le possiamo iscrivere ad un sistema di accoglienza assolutamente inadeguato, che tratta le persone alla stregua di numeri e/o pacchi da spostare qui o lì, senza attivare forme di autodeterminazione e autonomia, né tantomeno aprendo a possibilità di formazione, lavoro, vita. La questione più grossa rimane naturalmente quella legata ai documenti, che nel Mondo di oggi dividono la popolazione in chi ha diritti e chi non ne ha. In generale credo che dovremmo smetterla nel credere che una persona che lasci la propria terra lo debba fare per forza “solo” a causa di guerre o carestie. Ognuno ha il diritto a ricercare un esistenza libera e degna nel posto che ritiene migliore.
Una social catena, una radicata memoria di passate migrazioni, l’empatia nei confronti di coloro che si apprestano a quelle attuali. Inaspettate testimonianze costellano le sue riprese, in un clima freddo e ostile, non solo a livello atmosferico, ma soprattutto sociopolitico, in cui si è manifestato, però, il calore della solidarietà. Vuole raccontarci le sensazioni più forti vissute nel corso delle riprese?
La solidarietà è certamente uno dei temi centrali del nostro film. Di gesti di grande umanità ne abbiamo visti e filmati diversi. Noi stessi ci siamo messi in gioco e in alcuni momenti le camere sono finite negli zaini, perché oltre a filmare abbiamo creduto che ci fosse qualcosa di più importante da fare. Mi vengono in mente almeno due momenti distinti. Uno è la notte in cui abbiamo filmato le “maraude”, delle ronde di soccorso che i solidali praticano nella zona di confine per soccorrere eventuali migranti in difficoltà. È stata una notte emotivamente forte, che ci ha cementato come gruppo e che ci porteremo a lungo nel cuore. L’altro momento è quando siamo stati al cimitero di Prelles, nei pressi di Briançon, per fare alcune riprese della tomba di Blessing, ragazza nigeriana morta il 7 Maggio 2018 dopo un inseguimento della gendarmerie. Quel giorno è nata “On a springtime morning”, uno dei brani più intensi della colonna sonora del film realizzata da Claudio Cadei.
Il film coniuga, alle riprese, una ricostruzione storica, in graphic novel animata, della migrazione italiana negli anni 50. L’espressione della realtà attraverso l’arte è efficace quanto quella ripresa dall’occhio diretto di una telecamera?
Assolutamente si. L’esigenza era quella di restituire la storia di quel territorio, che abbiamo ritrovato tanto sui libri quanto nei racconti degli abitanti della montagna. La riuscita ibridazione di documentario e animazione, alla ricerca di un incontro tra presente e memoria, credo sia un linguaggio oramai più che consolidato. Per quanto ci riguarda è stata una grande sfida, sia in termini tecnici che produttivi, ma decisamente entusiasmante, che ci ha permesso di sperimentare nuovi linguaggi e di raccontare un “pezzo” di quella storia che ritenevamo fondamentale. Non una mera operazione di “retorica”, bensì la dimostrazione di come la dinamica della frontiera si ripeta nel corso dei decenni. Uno stimolo all’empatia, al mettersi nei panni degli altri.
Turisti, attivisti, abitanti di luoghi di confine, migranti. Un quadro complesso di forti contrasti e paradossi che ha potuto cogliere nel vivo manifestarsi e che le chiedo di descrivere preliminarmente, per avvicinare gli spettatori alla visione di questo film.
The Milky Way è un racconto che viaggia su diversi piani, stilistici e narrativi. È la storia di un territorio, degli abitanti che li vivono e delle persone che, nel corso dei decenni, si sono trovati ad attraversarlo. Una storia dai contrasti forti, in cui il “luogo del turismo” e il “luogo della frontiera” si mischiano e si sovrappongono, evidenziando le incongruenze e le ingiustizie di questo sistema razzista. Una perfetta metafora della moderna civiltà, dove merci e profitti viaggiano veloci mentre le persone rischiano di morire (e muoiono) sulle frontiere. Un racconto che pone al centro il diritto e il dovere al soccorso, qualcosa che avevamo dato per scontato, ma che negli ultimi anni è stato sempre più criminalizzato.
Perché nessuno si salva da solo?
Perché oggi più che mai è necessario ripartire da quello stesso concetto di comunità, che è stato devastato dalle politiche neoliberiste degli ultimi decenni. In un contesto di enorme disgregazione, è doveroso infilarsi nelle pieghe di questa crisi e tracciare nuove possibilità di società e di vita insieme. “Nessuno si salva da solo” presuppone una scelta partigiana. Come dice Emanuele Giacopetti (illustrare di The Milky Way) vuol dire “scegliere il noi in cui stare”.
Grazie.
Ines Arsì