03/10 Un leone d’argento saturo
Secondo solo a quello d’oro, come nella migliore tradizione dei metalli, il leone d’argento rappresenta un compositore potenzialmente dorato ma non ancora abbastanza ‘esperto’.
Il vincitore di quest’anno, Raphaël Cendo, rientra ampiamente fra i più meritevoli dal punto di vista musicologo avendo la non indifferente qualità di aver concorso alla creazione di un vero e proprio movimento estetico, il saturazionismo.
Non è questa la sede per discutere se questo movimento sia un passo verso il nuovo, come ad esempio sembrerebbe date le molte emulazioni, o se, dato il suo istinto all’eccesso e all’esacerbazione, sia il canto del cigno della musica contemporanea così come la conosciamo, priva com’è ormai di spunti creativi originali e perennemente piegata, in contemplazione, su sé stessa.
Unico brano in programma nella serata di premiazione, in prima italiana, Delocazione si è avvalso dell’interpretazione di un doppio quartetto, vocale e strumentale, rispettivamente i Neue Vocalsolisten e il Quatuor Tana.
L’impegno degli otto esecutori è stato da lodare vista la sicurezza con cui hanno gestito la frammentatissima prosopopea che fra riferimenti letterari (Rilke, Didi-Huberman e Parmiggiani fra gli altri) e ricerche timbriche angoscianti (nelle intenzioni dell’autore un riferimento allo choc del 1945 a Hiroshima), sembra continuamente autogenerare suoni estremi e volutamente fastidiosi, adoperando fra gli altri forme di polistirolo sulle corde degli archi.
Chiedere, al pubblico presente, una attenzione su queste taglienti sfumature per quasi un’ora, sapendo oltretutto che da anni la soglia di attenzione è in progressivo calo, è forse l’ennesima provocazione del compositore ed è al contempo motore stesso di quella esasperazione a cui il saturazionismo punta.
Nel pomeriggio l’ottimo concerto dell’Ensemble Cairn, per l’occasione sul palco con la pianista italiana Maria Grazia Bellocchio.
I focus su Tristan Murail, quattro miniature dal ciclo Portulan, e su Jérôme Combier, Die finsteren Gewässer der Zeit, in prima italiana, sono ottimi esempi di concerti-manifesto che aiutano il pubblico ad avvicinarsi al lavoro di autori del panorama europeo.
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04/10 In memoriam et in futurum
Una giornata particolare quella di commiato da questa edizione della Biennale Musica in cui più che mai si è allargata quella crepa fra musica contemporanea storica e attuale.
A partire dallo spettacolo che la Biennale ha voluto dedicare alla memoria di Mario Messinis, anima musicale veneziana e italiana degli ultimi decenni ed ex direttore della Biennale Musica nel 1979-’82 e nel 1992-’96.
Un concerto che parlava di storicità a partire dalla commemorazione funebre iniziale tenuta da Ivan Fedele stesso, un sentito discorso a ricordare che la grandezza degli uomini sta anche negli aiuti che riescono a dare ai più giovani in cerca di affermazione.
Affermazione giusta, spesso ripetuta da Fedele lungo questo Festival e di cui, sinceramente, si sente il bisogno, quanto meno per avvicinare un pubblico che ora più che mai appare completamente distaccato da ciò che viene messo in scena.
Protagonisti del concerto i musicisti dell’Ex-novo Ensemble a confrontarsi con un programma di colleghi e compagni di viaggio di Messinis.
A partire dal Quintetto da Luoghi Immaginari 1 di Fabio Vacchi di cui Messinis era dedicatario e che nella direzione di Claudio Ambrosini acquisiva ancora di più quell’aurea eterea e fantastica che rapisce l’attenzione del pubblico.
A seguire Alberto Caprioli (anche alla direzione) trasmetteva nel suo Vor dem singenden Odem una atmosfera mistica e misteriosa solo interrotta dai pizzicati del pianista, mentre Adriano Guarnieri (anch’esso alla direzione del suo brano), grazie all’ausilio delle percussioni, raggiungeva nel brano …l’alba dei suoni… uno status più bellicoso, quasi come il suo intervento di protesta all’esecuzione di Verrando di qualche giorno prima.
Il ritorno sul podio di Ambrosini è coinciso con l’esecuzione di Zero di Michele dall’Ongaro e poi del brano di Ambrosini stesso, Vite di suoni illustri, in cui il compositore prende spunto da leitmotiv di brani celebri (Après midi d’un faune di Debussy, Für Elise di Beethoven, Suite per violoncello di Bach, …) per trasformarle o meglio ‘contemporaneizzarle’.
Un concerto sentito e applaudito da una sala gremita di amici, parenti e conoscenti di Messinis che lascia però un dubbio in chi scrive. Non sarebbe stato meglio continuare l’eredità coinvolgendo per questo concerto giovani fra compositori/musicisti e perché no, pubblico?
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Ecce video
Chi per fortuna continua a coinvolgere i giovani è proprio la sezione ad essa dedicata, ovvero Biennale College. Abbandonata la formula delle opere brevi, quest’anno si è assistita probabilmente alla migliore edizione sia per il valore delle idee compositive sia perché effettivamente proiettate ad uno spettacolo futuribile e allettante.
Quattro i compositori selezionati ad affrontare una scrittura per strumento solista, live electronics e video in tempo reale creato da un artista apposito con cui formare un duo creativo.
Molto valide non solo le scelte di quale strumento adoperare ma anche come farlo interagire con l’elettronica e i video.
Nel primo caso, Morphology of a digital mouth del duo Luca Guidarini–Andrea Omodei, la protagonista è stata la voce, impersonata dal soprano Ljuba Bergamelli, o meglio l’arte del cantare.
Un trattato tecnico sul cantare che trasporta il profilo umano e le sue azioni, dalla respirazione fino al gesto facciale, ad un avatar digitale in un continuo climax di volume e complessità timbrica.
A seguire l’interessante realizzazione per sax tenore, il bravo Eudes Bernstein, del duo Francesco Pellegrino e Roberto Cassano. Habitat è una embrionale Fantasia disneyana in cui il suono, ottenuto con un numero considerevole di effetti, è creatore di live graphics dalle tonalità arancioni e blu che richiamano il primo un habitat marino e il secondo un mondo più strettamente geometrico in stile Flatlandia, il famoso racconto di Edwin Abbott Abbott.
Il distopico [nameless_remote_memory] di Matteo Gualandi e Silvio Petronzio, impreziosito dal solismo del violoncellista Michele Marco Rossi nella parte centrale, indaga sull’appartenenza o meno di una memoria alla nostra sfera personale con una sostanziosa ben corposa parte video quasi mònotona e ricorsiva.
A conclusione un brano per contrabbasso solo che come strumento ha i suoi pregi e i suoi difetti. Sicuramente interessante la scelta di uno strumento raramente accostabile al solismo, merito anche della performance di Filippo Angeloni, ma che proprio per sua natura ha un range di possibilità fortemente limitato.
Il duo Matteo Tomasetti e Filippo Gualazzi decidono quindi in Perpetuo di sfruttare un diverso elemento come unione fra performance video e musicale, quello illumino-pirotecnico, individuata in una luce rossa che danza attorno al musicista, attirando su di sé l’attenzione del pubblico.
Come tutte quelle realtà che hanno brancolato al buio per mesi nell’incertezza se annullare o mantenere una programmazione pur con tutte le incognite di un periodo così anormale (chiusura dei confini, pubblico in sala, etc), Biennale Musica e il suo direttore artistico Ivan Fedele, all’ultimo anno di contratto, meritano un plauso. Un plauso non per un afflato di cameratismo fra musicisti ma perché il pubblico, sicuramente preso da problemi più stringenti, tende a non accorgersi come l’intero sistema artistico, che già non era in ottima salute, non è stato solo fra i più colpiti ma sarà uno di quelli che farà più fatica a rialzarsi.