Gianni Maroccolo è un grande musicista della contemporaneità, “una manifestazione di Dio”; bassista dalla tecnica essenziale, eppure assolutamente originale, ha collaborato con artisti del panorama italiano ed internazionale, ma si è anche distinto come produttore discografico e scopritore di talenti.
Sta attualmente realizzando “Mephisto Ballad”, un nuovo album che uscirà, per la Contempo Records, il 18 febbraio 2021 e che lo vede collaborare con Antonio Aiazzi, grazie ad un progetto ideato da Bruno Casini, proprio al quarantennale dei Litfiba.
Ospite d’onore, la voce recitante dello straordinario Giancarlo Cauteruccio. Nell’attesa del disco, lo abbiamo intervistato per voi.
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Gianni Maroccolo lei ha, senza dubbio alcuno, contribuito a scrivere la storia della musica. Ma quando, in quale momento, si è lasciato veramente catturare dal culto per la pratica strumentale e cosa ha contribuito effettivamente a farle intraprendere la carriera del musicista?
Sinceramente non ricordo quando e come sia accaduto. La musica mi ha appassionato sin da piccolo; ho iniziato a strimpellare la chitarra a sei anni. Ascoltavo di tutto e suonavo ogni cosa… Pentole, fustini, melodiche. Una passione molto forte che ho sempre vissuto per piacere personale senza mai desiderare di trasformarla in un mestiere. È accaduto senza che lo volessi e me ne accorgessi. Desideravo fare il marinaio e studiavo al Nautico per diventare un Capitano di lungo corso e imbarcarmi il più presto possibile, ma evidentemente la vita aveva altri piani per me. Mi sono reso conto che sarebbe potuto diventare un mestiere quando con i Litfiba iniziammo a suonare spesso all’estero. Scoprire e confrontarsi con culture, tradizioni, musiche e musicisti di altri paesi è stata per me una grande fortuna. Mi ha aperto la mente e fatto capire, tra le altre cose, che forse avrei potuto fare il musicista anche io. In realtà credo però di essere un predestinato e che Qualcuno abbia scelto che questo fosse il mio ruolo in questa vita terrena.
Come mai ha scelto, in particolare, di adottare la tessitura grave del basso come strumento di elezione espressiva?
Apparente casualità. Frequentavo un doposcuola alle medie cercando di imparare a suonare un po’ tutti gli strumenti. Dovevamo fare una sorta di saggio a fine anno e l’unico studente che aveva seguito qualche lezione di basso si dovette ritirare. Senza pensarci troppo, mi proposi di sostituirlo.
Poi, nel tempo, ho imparato a comprendere le ragioni di quella scelta. Nella musica moderna il basso è uno strumento che determina divisioni e pulsazioni ritmiche e, al tempo stesso, risulta fondamentale nella composizione e nell’arrangiamento. Modificando una nota cambi l’armonia e spesso la tonalità di un pezzo. Non è uno strumento appariscente, ma è essenziale soprattutto nella musica d’insieme.
Quali sono stati i pilastri fondanti della sua formazione come uomo e come artista?
Credo la famiglia. Poi sono arrivate le canzoni. Scoprivo musica bellissima e cercavo di farmi tradurre i testi. Molte canzoni hanno contribuito a formare il mio carattere e il mio modo di pensare. Le ascoltavo soprattutto alla radio, di notte, da piccolo e appena possibile iniziai ad andare ai concerti. E poi gli incontri speciali… Prima dei Litfiba, un musicista bolognese eccezionale che mi insegnò a comprendere la musica e a suonarla. Subito dopo, l’incontro con i Litfiba… e poi Ferretti, Hector Zazou, Claudio Rocchi… Persone Speciali che mi hanno dato molto.
La sua carriera è una straordinaria e continuativa evoluzione dinamica di crescita artistica. Ma quali sono stati, secondo lei, i nodi di svolta più intimi nel suo percorso di innovazione creativa?
Forse una curiosità senza limiti. Sono un assetato di “conoscenza” nella vita come nella musica. Mi piace approfondire, studiare, sperimentare continuamente e ricerco spesso il confronto e la condivisione. Insomma, non mi accontento facilmente e non sopporto l’idea di reiterare quanto già fatto.
Ci regali un ritratto estemporaneo e personale dei primi Litfiba e della Firenze di quegli anni.
Immagina un periodo grigio e una città ripiegata sul passato ed incapace di rigenerarsi. E immagina anche un appiattimento culturale e politico, crisi economica e una grande cappa di paranoia dovuta alla strategia della tensione… D’incanto la situazione esplode e tutto diventa possibile per tutti.
Nascono locali, radio, etichette indipendenti, mostre, rassegne, festival… Ogni linguaggio legato all’arte trova una sua nuova ragion d’essere e il coraggio di sperimentare. Un periodo di fermento indescrivibile per noi che lo abbiamo vissuto. Una manciata di anni che ha cambiato la nostra vita per sempre.
Cosa ha significato per lei “Epica Etica Etnica Pathos”?
Un’esperienza di vita fortissima. Quel disco è stato un vero e proprio generatore creativo. Una rinascita collettiva per tutti coloro che vi hanno partecipato. A livello artistico, in assoluto, uno dei dischi a cui sono più affezionato e di cui vado fiero.
Un suo personale ricordo di Giovanni Lindo Ferretti al tempo del Consorzio Suonatori Indipendenti.
Non serbo particolari ricordi perché di rado penso al passato. Nel caso di Giovanni c’è un legame forte che appartiene al presente di entrambi. La musica ci ha fatto incontrare e ci ha dato la possibilità di produrre musica e parole che hanno lasciato il segno, ma il nostro rapporto è andato al di là dei dischi e dei concerti. Posso dire che in un momento assai delicato della mia vita, Giovanni mi ha aiutato ad aprire gli occhi e costretto a diventare grande.
Lei ha anche scoperto diversi talenti del panorama musicale italiano. In questo si è sentito più guidato dall’intuito o dall’esperienza?
Non saprei. Forse ho il dono di saper riconoscere il talento, ma non penso si tratti di intuito e/o di esperienza. Certo, l’esperienza è fondamentale nel momento in cui devi fare del tuo meglio per fare fiorire il talento di un musicista, ma riconoscere quel talento credo abbia a che fare con la sensibilità e la fortuna di riuscire a “sentire” le persone.
Dai tempi dei tempi, la musica è, forse, l’esperienza comunicativa umana più riuscita, nella sua straordinaria capacità di orchestrare armonicamente la collettività, lasciando emergere le dissonanze, accompagnando il tempo, riconoscendo l’importanza del silenzio e soprattutto, esercitando, nei fruitori tutti, una capacità fondamentale, quella dell’ascolto. Cosa sente di voler fare arrivare ai giovani musicisti che coltivano il sogno di suonare per tutta la vita? Cosa devono ascoltare?
Devono ascoltare principalmente se stessi. La musica ci rende persone più belle, che la si suoni o la si ascolti, poco cambia e nessuno ci vieta di suonare per tutta la vita e di coltivare questa bellissima passione. Che si trasformi in un mestiere, o meno, dipende solo, in parte, da noi, ma credo che avere delle aspettative non sia mai utile nella vita. Importante è vivere il qui e ora, il presente. Oggi suoniamo…. Domani è un altro giorno e si vedrà.
Grazie Maestro.
Ines Arsì