Giuseppe Manfridi, drammaturgo dalla scrittura colta e raffinata, cultore della parola sapientemente calibrata tra retaggi classici e influenze contemporanee, esprime l’universo emotivo evocando sentimenti, suggestioni e seduzioni.
Per La Mongolfiera Editrice ha pubblicato “Filastrocche della nera luce (cronache dalla Shoah)” in cui, allontanandosi dall’abituale cifra stilistica, affida al lessico del componimento popolare la tragedia della Shoah.
Il linguaggio infantile delle filastrocche le rende adatte anche agli adulti?
Il racconto per bambini utilizza un linguaggio attraente e suggestivo quale quello delle filastrocche, acrobazie di rime e ritmi che incantano anche gli adulti.
La filastrocca è poesia apparente, in realtà ne è la negazione poiché è descrittiva e incantatoria, si imprime nella memoria e si tramanda oralmente, non necessitando di essere trascritta. La filastrocca è un racconto che si fissa nel modo stesso in cui viene trasmesso, nell’unica forma possibile della nenia o della ninna nanna.
Le filastrocche sono forse la mia scrittura più sperimentale, perfino oltre quella del mio romanzo “Cronache dal paesaggio”.
Come nasce l’esigenza di raccontare la Shoah?
Ho avuto come autore una lunga frequentazione con l’ebraismo, guardando alla complessità di quelle tematiche con lo sguardo di chi ebreo non è. Fin dalla fine degli anni Ottanta, con la protagonista ebrea di “Arsa anagramma di Sara” ricavato da un precedente radiodramma e con “La matassa e la rosa” interpretato da Pamela Villoresi, ambientato in un campo di sterminio.
Perché ricorrere alle filastrocche per evocare un’aberrante tragedia?
Ho vissuto come un editto del cui gravame farmi carico il pensiero del filosofo tedesco Theodor Adorno “Dopo Auschwitz non si può più fare poesia”. Primo Levi che quell’inferno ha descritto, rimproverava al poeta ucraino Paul Celan di aver fatto poesia intorno alla Shoah. Entrambi non sono riusciti a sopravvivere all’orrore, Celan lanciandosi nella Senna e Levi dalla finestra. A loro dedico la mia opera.
Volevo, quindi, rendere umile la mia scrittura, impedendole di diventare poesia, che è celebrativa della vittima ma anche dell’evento.
Quando è maturata l’idea di raccontare la Shoah mi son tornate in mente le storielle ebraiche ricche di umorismo, ho rivisto i quadri di Chagall e ho pensato che l’ebraismo è caratterizzato da un modo di giocare, cantare, danzare che è naufragato nei lager. Così ho deciso di attingere agli eventi gioiosi, come la festa di Pasqua e altre ricorrenze, pur rispettando le voci di chi, come Primo Levi, “ha visto la Gorgone, non è tornato per raccontare o è tornato muto”.
Quali sono le differenze e quali le analogie tra poesia e filastrocca?
La poesia usa tecnicamente le figure retoriche, come la metafora che amplifica il senso. Nella filastrocca, invece, il significato è insito nel testo che si imprime attraverso la reiterazione del verso, la musicalità cadenzata, le assonanze, le allitterazioni.
Ho dedicato una filastrocca alla metafora, citando quella nazista e infernale di Goebbels che afferma “Siamo entrati in parlamento come dei lupi in un ovile”.
Altra differenza è l’aggettivazione, che il poeta usa come significativo strumento semantico per qualificare il sostantivo e collocarlo nello spazio-tempo. Caratteristica della filastrocca è invece la persistente presenza e ripetizione di sostantivi privi di aggettivi.
La rappresentazione scenica delle filastrocche può diventare spettacolo?
Sulla scena la filastrocca acquista una forte tridimensionalità, col narratore che racconta e l’uditorio che ascolta con avida curiosità proiettandosi in un mondo immaginifico. Le filastrocche sono un testo teatrale frammentato che pretende di essere recitato, richiede di essere pronunciato per esistere. È palestra di acrobazie verbali, funziona se c’è ritmo e rima, pretende giochi linguistici che non sono poetici, trasmette dalla bocca all’orecchio senza la mediazione del foglio scritto.
Come mantenere vivo il ricordo della Shoah?
Si ritiene che il ricordo sia necessario per non dimenticare. Io mi dissocio da questa lettura, poiché il ricordo è debole e contiene in sé le tossine della dissipazione: più ricordo un evento e lo trasmetto raccontandolo, più lo modifico, finché diventa qualcos’altro.
Il passare del tempo trasforma luoghi e momenti della storia in archeologia. Quando vediamo ragazzi scattarsi un selfie ad Auschwitz ci indigniamo, ma non altrettanto se si fotografano tra le rovine di Cartagine, teatro sanguinoso delle guerre puniche. Un giorno Auschwitz diventerà come Cartagine.
Le filastrocche raccontano, non fiabe per bambini, ma orride storie di disumana prevaricazione. Non più filastrocche per cullare i sogni di bimbi ma per incidere nella memoria gli incubi realmente vissuti da esseri inermi.
Nella mia narrazione voglio rifuggire dal sentimentalismo, ma mettere un sigillo che renda atroce sia il dolore di un bambino nel lager nazista che quello di un bambino dato in pasto ai leoni nell’antica Roma. Le azioni turpi che hanno prodotto la Shoah con la sistematica eliminazione fisica di persone senza colpa assumono la stessa pregnanza di gesta epiche o fiabesche tramandate oralmente nei versi carichi di assonanze.
Come preservare il patrimonio di testimonianze quando l’ultimo sopravvissuto sarà scomparso?
Si è interrotto il filo generazionale: il nonno ha raccontato al padre che ha raccontato al figlio. Adesso la Shoah deve tramutarsi in patrimonio tragico dell’umanità, mitizzandosi per continuare a rievocare l’inferno.
Credo che la filastrocca riesca a trasformare il racconto della Shoah in un valore universale e atemporale, come il monolito del film “2001 Odissea nello spazio”. Così come una madre che oggi uccide i propri figli si tramuta in novella Medea, immutabile monolito di efferata vendetta.
La filastrocca mette in luce una realtà, attivando un monito. “Troppo facilmente resiste ogni tempo alle insidie del bene” è l’aforisma dei miei vent’anni che ho inserito in numerosi testi. Purtroppo, la tendenza dell’umanità è disattendere gli ammonimenti del bene per lasciarsi suggestionare dal male.
Quando scompariranno gli ultimi testimoni superstiti resteranno le filastrocche a tramandare lo sterminio di un popolo, da recitare in ogni contesto.
Alla presentazione del libro nel 2020 presso il Centro di Cultura ebraica hanno fatto seguito quella in forma di spettacolo alla Casa della Storia e della Memoria, una messinscena al Teatro Sala Umberto con letture dell’autore insieme a Lorenzo Macrì ed Evelina Meghnagi con brani canori del repertorio ebraico, un’esecuzione polifonica a L’Aquila, una breve lettura allestita ad Auschwitz. All’Istituto Rossellini gli allievi della scuola di recitazione ActionPro diretti da Angelo Longoni hanno declamato le filastrocche come testi drammaturgici, drammatica accusa di voci giovani per un futuro rubato nella nera notte dell’orrore, fra sensi di colpa e desiderio di rinascita.
Il volume è edito da La Mongolfiera Editrice – collana Teatro
Pagg. 205 – appendice di 30 tavole illustrate da Manuel de Teffé
€ 20,00