ORCHESTRA DEL TEATRO ALLA SCALA
SUSANNA MÄLKKI, direttrice
Richard Strauss
Serenade in mi bem. magg. op. 7
per fiati
Maurice Ravel
Ma mère l’oye
Ludwig van Beethoven
Sinfonia n. 1 in do magg. op. 21
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La Stagione Sinfonica prosegue venerdì 23 aprile alle ore 20 con un appuntamento in diretta streaming con l’Orchestra della Scala diretta da Susanna Mälkki.
Susanna Mälkki è stata dal 2006 al 2013 Direttrice musicale dell’Ensemble InterContemporain; dal 2016 è Direttrice principale della Helsinki Philharmonic Orchestra e dal 2017 è Direttrice ospite principale della Los Angeles Philharmonic.
Torna alla Scala dopo il successo del debutto nel 2011 – prima donna sul podio del Piermarini – con la prima assoluta dell’opera di Luca Francesconi Quartett e i concerti con la Filarmonica nel 2014. La prima donna a dirigere una produzione scaligera è stata Claire Gibault, nel 1995, per la prima rappresentazione italiana de La Station Thermale di Fabio Vacchi al Teatro Lirico.
Il programma del 23 aprile si apre con la Serenata in mi bem. magg. op. 7, composizione giovanile di Richard Strauss, un piccolo gioiello in un solo movimento per un organico di tredici strumenti, che rivela nella forma e nel carattere l’impronta del classicismo mendelssohniano e brahmsiano.
Il concerto prosegue con le suggestive atmosfere fiabesche di Ma mère l’oye di Maurice Ravel e si conclude con la Prima Sinfonia di Beethoven, in cui pur nel solco della tradizione mozartiana e haydniana già si staglia autentico il linguaggio innovatore, ardito e appassionato, del genio di Bonn.
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Susanna Mälkki
Nata a Helsinki, ha studiato violoncello con Hannu Kiiski e direzione d’orchestra con Jorma Panula all’Accademia Sibelius della sua città e alla Royal Academy of Music di Londra, perfezionandosi sotto la guida di Esa-Pekka Salonen. Dal 2016 è Direttrice principale della Helsinki Philharmonic Orchestra e dal 2017 è Direttrice ospite principale della Los Angeles Philharmonic.
Specializzata in musica contemporanea, è stata Direttrice musicale dell’Ensemble InterContemporain dal 2006 al 2013. Nel 2011 è stata la prima donna a salire sul podio del Teatro alla Scala, per la prima mondiale dell’opera Quartett di Luca Francesconi.
Nel dicembre 2016 ha debuttato al Metropolitan dirigendo L’amour de loin di Kaija Saariaho per la regia di Robert Lepage. Nel luglio 2021 debutterà al Festival di Aix-en-Provence alla guida della London Symphony Orchestra nella prima mondiale dell’ultima opera di Saariaho, Innocence. Per la stagione in corso con la Helsinki Philharmonic Orchestra ha in programma numerose collaborazioni con i media ed esecuzioni a distanza, in linea con l’attuale situazione sanitaria mondiale. Inoltre dirigerà come ospite la Symphonieorchester des Bayerischen Rundfunks, l’Orchestra del Gewandhaus di Lipsia e i Berliner Philharmoniker.
In campo operistico ha diretto, tra l’altro, la prima mondiale di Trompe-la-Mort di Francesconi (2017), Rusalka di Dvořák (2019) e Yvonne, Princesse de Bourgogne di Philippe Boesmans (2020) all’Opéra di Parigi e Dantons Tod di Gottfried von Einem nel 2018 alla Staatsoper di Vienna. Nel 2022 tornerà al Metropolitan per dirigere The Rake’s Progress di Stravinskij.
Ugualmente richiesta anche in campo sinfonico, dirige regolarmente alcune delle più importanti orchestre nordamericane e europee, tra cui la Cleveland Orchestra, la New York Philharmonic, le Orchestre sinfoniche di Chicago, Philadelphia e Boston, la London Symphony Orchestra, i Münchner Philharmoniker, i Wiener Symphoniker e la Symphonieorchester des Bayerischen Rundfunks.
Ha ricevuto numerosi premi e riconoscimenti per il suo impegno a favore della musica. Nel 2010 è diventata Fellow of the Royal Academy of Music, nel 2011 le è stata conferita la medaglia Pro Finlandia dell’Ordine del Leone di Finlandia, nel 2014 è stata nominata Officier de l’Ordre des Arts et des Lettres e nel 2016 Chevalier de la Légion d’honneur. Nell’ottobre 2016 la rivista “Musical America” l’ha eletta “Direttrice d’orchestra dell’anno” e nel 2017 le è stato conferito il Nordic Council Music Prize.
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La notte, il sublime e l’ode pindarica
Franco Pulcini
Richard Strauss, Serenade per strumenti a fiato op. 7
Composta nel 1881, quando Strauss era uno studente di ginnasio diciassettenne a Monaco di Baviera, la Serenade op. 7 venne pubblicata l’anno seguente ed eseguita a Dresda nel novembre 1882. Il padre Franz Strauss era cornista e la pagina potrebbe essere considerata un omaggio al genitore, visto che l’organico comprende ben quattro corni, oltre a molti altri fiati, alcuni dei quali a due (flauti, oboi, clarinetti, fagotti), più un controfagotto e un bassotuba: tredici in tutto. Il padre seguiva con interesse le aspirazioni compositive del suo Richard, curandone quotidianamente l’educazione del gusto musicale, e aveva tentato di sensibilizzare in proposito Hans von Bülow. Il famoso direttore d’orchestra aveva denigrato con sprezzante sufficienza le prime prove dell’aspirante musicista, definendolo “un talento come se ne trovano a carrettate negli angoli delle strade”. Bülow non andava molto d’accordo con Franz Strauss e poteva esserci il sospetto che la ventennale ruggine tra i due sarebbe ricaduta sul figlio. I loro sonori litigi risalivano agli anni della nascita di Richard, quando Franz era primo corno dell’Opera di Corte Bavarese, quella di re Ludwig II, nella quale Bülow dirigeva le opere di Wagner, autore che il prestigioso strumentista detestava platealmente, pur eseguendolo magnificamente, tanto che era stato chiamato a suonare a Bayreuth per la prima assoluta del Parsifal nell’estate del 1882. L’arcigno maestro ebbe invece nel 1883 un’impressione molto favorevole della presente Serenade, nel frattempo pubblicata, tanto da inserirla nei programmi dei concerti dell’Orchestra di Meiningen, di cui era il direttore, anche nelle tournée nazionali. La pagina ebbe, tra l’altro, buone recensioni della critica. Per la prima volta Richard poté incontrare a Berlino il temibile direttore e pianista, che gli commissionò un altro brano per fiati, la Suite op. 4. Da quel momento Bülow lo prese sotto la sua protezione, iniziandolo come suo assistente alla straordinaria carriera di direttore d’orchestra che Strauss sempre svolse, insieme a quella di operista e di autore di poemi sinfonici e Lieder.
La Serenade è un brano garbato ed emotivamente disimpegnato, che guarda alle forme analoghe praticate da Mozart, riscrivendole in un linguaggio più moderno, con le armonie del romanticismo classicheggiante di Mendelssohn e in parte di Brahms. Il padre Franz aveva educato il figlio alla diffidenza nei confronti di Schumann, che considerava un po’ troppo irrispettoso delle sacre regole della tradizione compositiva tedesca. Non a caso, promuovendo l’op. 7, Bülow presentava il musicista agli impresari come “un giovane di Monaco, di scuola classica”. La pagina era anche stata dedicata a Friedrich Wilhelm Meyer, l’anziano insegnante di musica di Richard, già direttore d’orchestra, dal quale aveva appreso le regole della composizione e dell’orchestrazione.
È in un solo movimento: un Andante in mi bemolle maggiore di stupefacente abilità compositiva, che mostra inoltre qualcosa dell’originalità del successivo Strauss. Scrivendola, il giovane musicista poteva aver pensato all’orchestra di Meiningen, di cui facevano parte alcuni dei più apprezzati strumentisti a fiato del tempo: il cornista Gustav Leinhos e soprattutto il clarinettista Richard Mühlfeld, per il quale Brahms scriverà le sue immortali pagine per questo prezioso strumento. Una ventina d’anni dopo, Strauss farà un’autocritica sull’equilibrio dell’organico: “Impossibile contrapporre quattro corni ai legni a due”. Nel 1909, dopo aver composto Salome ed Elektra, definirà l’op. 7 “nient’altro che il decoroso lavoro di uno studente di conservatorio”.
Il brano prevede due temi principali ben differenziati, ma non conflittuali, come si addice alla rivisitazione creativa di una forma d’intrattenimento serale. A differenza di quanto ci si potrebbe aspettare, non vi sono temi popolari memorizzabili. Inizia con un corale omoritmico, ma prosegue in forma di arioso contrappunto fiorito. Intraprende a tratti un moderno vagare armonico, ma con dolcezza, senza provocazioni. Non hanno seguito gli squilli militari che fanno da ponte col secondo tema. Nel complesso la conduzione è dotta, in parte scolastica, ma la delicatezza di molti passaggi, soprattutto nella parte finale, e la liquidazione tematica conclusiva non sono certo prerogativa degli studenti di conservatorio, per quanto bravi, ma rivelano un autentico artista.
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Maurice Ravel, Ma mère l’oye
Il pittoresco russo colpì la fantasia dei parigini grazie alle stagioni tersicoree di Djagilev, che trionfavano in tutta l’Europa. Anche compositori non russi vennero chiamati a partecipare a quella raffinata festa dei sensi, del nuovo e dell’avanguardia. Il genio di Stravinskij era alle prime esplosioni (L’uccello di fuoco va in scena il 26 giugno 1910), Debussy si apprestava a uscire dal simbolismo e Ravel, scegliendo nel 1908 le favole di Perrault, non fu in debito con nessuna delle correnti alla moda. Poté anche soddisfare la sua passione per le fiabe e le tematiche infantili, che culminerà anni dopo nell’opera L’enfant et les sortilèges. Tutto era iniziato con una raccolta di cinque brevi brani per pianoforte a quattro mani, di cui i primi quattro sono ispirati ad antiche fiabe: La Belle au bois dormant e Le Petit Poucet, dall’antologia di Charles Perrault Contes de ma mère l’oye, Serpentin vert di Marie-Catherine d’Aulnoy (per Laideronnette, Impératrice des pagodes), La Belle et la Bête di Jeanne-Marie Leprince de Beaumont. Ravel li aveva dedicati a due bambini, Jean e Mimie, figli dei suoi più cari amici, Ida e Cipa Godebski. Vi lavorò dal 1908 a Valvins, presso Fontainebleau, ospite nella loro casa di campagna; l’esecuzione pubblica per pianoforte avverrà però solo nel 1910.
Ravel amava trascrivere per orchestra pagine nate per il pianoforte e, su richiesta del suo editore, ne fece in parallelo una versione per piccola orchestra, pure eseguita nel 1910 con un successo straordinario, forse il più grande da lui ottenuto fino a quel momento. E non ebbe difficoltà a trasformare nel 1911 i cinque piccoli pezzi in un ballet féerique con orchestra rinforzata, secondo un libretto ideato da lui stesso cambiandone un po’ la natura, pur mantenendo lo stesso titolo. Il balletto andò in scena al Théâtre des Arts il 28 gennaio 1912 e partecipò anche in questa forma scenica alla festa del nuovo, ma con una finezza sconosciuta. L’autore aveva aggiunto all’originale un Preludio, una Danse du rouet e alcuni brevi intermezzi di collegamento fra i cinque brani, in ordine peraltro modificato, per un totale di una decina di minuti in più di musica. Questi quattro interludi, che servivano per i cambi di scena, possono rappresentare una curiosità, ma non aggiungono nulla alla sostanza musicale.
Il balletto ebbe un commentatore d’eccezione, Reynaldo Hahn, l’amico di Marcel Proust, che ne scrisse una critica entusiastica uscita cinque giorni dopo la prima, in cui coglie nella musica di Ravel “la più artificiale assenza di artificio”, definizione davvero memorabile. Parla, elogiandoli, di “effetti di semplicità quasi puerile”. E ancora: “Tutto questo è di un gusto supremo, tutto è semplificato, sintetizzato, stilizzato, depurato, spogliato al punto di sembrare persino poco chiaro”.
L’obiettivo della perfezione tecnica artigianale, attenta a precisi meccanismi armonici, era messo al servizio del sogno più delicato e delle suggestioni della poesia infantile. Era musica destinata a bambini: una limitata difficoltà tecnica e le mani piccole dovevano essere considerate, insieme alla loro particolare sensibilità, così portata per l’avventura, il mistero, il sortilegio, la magia. Per esecutori giovanissimi ci vogliono linee pure, melodie semplici, armonie non troppo intricate, colori luminosi e piacevoli. Con risorse ridottissime Ravel aveva ottenuto un effetto sublime, unendo sottile edonismo e bel suono allo stile arcaicizzante delle scale modali, adattissimo alle vecchie favole.
In modo “eolico” è il canto malinconico della Pavane de la Belle au bois dormant, una benevola ninnananna che culla il riposo della principessa, il cui sonno è immaginato di una dolcezza pari al suo delicato aspetto. Petit Poucet ha un tema tortuoso, che rende visibile Pollicino alla vana ricerca del pane sminuzzato lungo il cammino. Lo strumentale ricrea i cinguettii dei responsabili della scomparsa della traccia e alla fine la preoccupazione del bambino. Laideronnette, Impératrice des pagodes è un brano tripartito, con una sezione centrale chiusa fra due altre uguali. La musica accompagna il bagno della fanciulla giunta in un mitico paese lontano. L’aspetto esotico-orientale è sottolineato dalla scala pentatonica, resa scintillante dalla strumentazione con ottavino, xilofono, arpa e celesta, che ricreano l’effetto dell’orchestrina gamelan di Bali. Un valzer lento e suadente, nello stile delle Gymnopédies di Erik Satie, accompagna Les entretiens de la Belle et de la Bête ‒ almeno finché la parola è alla Bella, perché, quando è la volta della Bestia, la melodia si contorce in cromatismi onomatopeici, quasi borbottii in grado di muovere a pietà. Per fortuna ascoltiamo la metamorfosi. Le jardin féerique è un lento zoom da grande distanza per mettere a fuoco e descrivere bellezze inimmaginabili. La benedizione della coppia è accompagnata da una passacaglia barocca, con sonorità sempre più piene, ma senza strafare. Influenzata dal crescendo-apoteosi finale dell’Uccello di fuoco, giunge a effetti di luminescenza e d’iridescenza che spiccano sulla minuscola fanfara celebrativa.
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Ludwig van Beethoven, Sinfonia n. 1 in do magg. op. 21
Per qualche decennio si è ritenuto che la pagina collocata da Beethoven all’inizio del suo catalogo sinfonico fosse in realtà una “seconda sinfonia”, poiché la musicologia del primo Novecento gli aveva attribuito una composizione in do maggiore conservata nella biblioteca dell’Università di Jena, detta pertanto “Sinfonia di Jena” e come tale pubblicata nel 1911-12 tra le opere complete del Maestro di Bonn. Studi più meticolosi hanno invece scoperto che il vero autore di questa esercitazione in stile haydniano era un certo Friedrich Witt; per cui possiamo ora riconoscere con sicurezza nella Sinfonia n. 1 in do maggiore il primo autentico esempio della forma che Beethoven avrebbe rivoluzionato nel giro di pochi anni.
Anche se la stesura dell’opera avvenne nel biennio 1799-1800, proprio a ridosso della prima esecuzione, abbozzi tematici del movimento conclusivo si collocano addirittura negli anni 1794-1795. Il fatto non sorprende in un autore la cui mente era una specie di grande botte in cui i temi musicali “invecchiavano” insieme per anni, come avviene con il vino buono, prima di essere riversati in qualche forma compositiva.
Dedicata al barone Gottfried van Swieten, il sostenitore viennese di Händel e della musica antica, la Prima Sinfonia venne eseguita per la prima volta al Teatro della Hofburg di Vienna il 2 aprile 1800, sotto la direzione dell’autore, durante un concerto al quale era presente Franz Joseph Haydn, il sinfonista che otto anni prima ‒ a Bonn, proprio nel 1792, l’anno del definitivo trasferimento di Beethoven a Vienna ‒ aveva accettato di prendere come allievo il dotatissimo collega tedesco per il quale non nutrirà mai grande simpatia. Quella prima esecuzione della Prima Sinfonia di un bambino prodigio divenuto ormai un maturo trentenne era attesa pertanto come la verifica dell’augurio del conte Waldstein, annotato in un album: “Che Lei possa ricevere, in grazia di un lavoro ininterrotto, lo spirito di Mozart dalle mani di Haydn”. Cercheremo di valutare la portata di tale profezia alla luce di quest’opera, pubblicata dall’editore Hoffmeister & Kühnel di Lipsia nel 1801 come Prima Sinfonia in do maggiore op. 21, e per la quale il problema della paternità stilistica si pone ancora in modo stimolante, soprattutto oggi a distanza di oltre due secoli. Il problema critico è stato così sintetizzato da Pestelli: “Considerata al suo apparire come opera di rottura rispetto ai modelli di Haydn e di Mozart per l’originalità delle articolazioni armoniche e per la rapida scansione del Minuetto, oggi è vista piuttosto come un anello di collegamento con la civiltà sinfonica settecentesca; più di Mozart, è Haydn il modello operante, per il gusto della sorpresa (armonica e ritmica) e la carica umoristica”. Niente spirito di Mozart, insomma. Se mai, il dubbio è che le orecchie di allora cogliessero una fuga in avanti rispetto allo “spirito” di Haydn, intendendo però il
termine “spirito” come attitudine allo scherzo, al gusto della sorpresa, al motto arguto e al gioco di parole, espressi con il linguaggio dei suoni. La scelta dell’accentuazione dell’ironia, del gesto melodico e armonico da teatro buffo, che deriva alla lontana da modelli musicali della commedia per musica napoletana, diviene in Beethoven un gusto spiccato per sbalordire l’ascoltatore: le risoluzioni armoniche dell’introduzione lenta, per esempio, sembrano fatte apposta per ingannare l’uditorio sulla tonalità d’impianto, come pure l’invenzione melodica, tutta scatti eccentrici, e la ricerca di una scompostezza eversiva rispetto al gusto corrente. Al di là del rinnovato carattere espressivo, i quattro movimenti della sinfonia hanno un taglio indubbiamente haydniano.
C’è in quest’opera un’abile strategia espressiva nel maneggiare le maschere della tragedia e della commedia, poiché l’Adagio molto, subito dopo le prime battute tonalmente ingannevoli, ha un respiro serio e meditativo di accigliata profondità, che rende per contrasto ancora più inaspettato il guizzo dell’Allegro con brio bitematico, sul quale ritorneremo in coda a queste note.
L’Andante cantabile con moto (secondo movimento) è di carattere galante e danzato, e tende in qualche modo al Minuetto, così come il Menuetto (terzo tempo), tende allo Scherzo nel suo andamento accelerato e ansimante. Nella scelta di velocizzazione del tempo lento, forse l’autore ritenne che c’erano già il tempo lento iniziale e le sette battute di Adagio prima dell’Allegro molto e vivace, per prevedere un vero Adagio in seconda posizione. Dopo il Menuetto, scherzoso in tutti i sensi, il finale che esplode in forma di rondò, dopo l’attesa insostenibile generata da quelle poche battute di Adagio, avrebbe un carattere questa volta indubbiamente napoletano, non fosse altro che per la mole di scherzi e sorprendenti invenzioni strumentali che Beethoven dissemina nella partitura.
Un commentatore geniale e originale come il compianto Carl Dahlhaus (che preferisce far derivare lo stile musicale di Wagner dall’opera “napoletana” piuttosto che dalla riforma gluckiana) ha avanzato un’ipotesi critica curiosa sull’Allegro con brio iniziale della Prima Sinfonia. Egli tende innanzitutto a cogliere nella sinfonia l’estetica del sublime, secondo cui il misterioso linguaggio sinfonico non dipende da alcuna legge di verosimiglianza, né da storie, drammi o caratteri; salvo però sposare la teoria settecentesca di Abraham Peter Schulz, secondo cui il linguaggio sinfonico ‒ in quanto espressione del grande, del solenne, dell’elevato, e soprattutto in quanto “riflessione sorretta dall’entusiasmo ed entusiasmo permeato di riflessione” ‒ è strettamente imparentato con il modello poetico dell’ode di Pindaro. Allegro sinfonico come “volo pindarico”: classicismo musicale viennese e classicismo poetico greco. Nella sua lunga e articolata ipotesi, Dahlhaus spiega che il disordine apparente della melodia e dell’armonia nel linguaggio musicale di un Allegro sinfonico come quello della Prima di Beethoven, le sue improvvise transizioni, l’elemento sorpresa, l’arditezza, l’immaginazione, la capacità di coniugare il puro pensiero con la passione sono caratteri che la trattatistica attribuisce anche all’ode pindarica, con la sua “apparente assenza di regole ritmiche”, e nel suo incessante fluire, secondo la definizione di Herder, come un “fiume che trascina nei suoi gorghi tutto ciò che è mobile”. La sintassi della Prima Sinfonia, “complicata e artificiale”, basata sulla stessa “irregolarità metrica e sintattica” attribuita, secondo Orazio, all’ode pindarica e su una simulata irregolarità percepita come “fluire”, si stacca già dai modelli haydniani, e si pone, secondo Dahlhaus, come autentico linguaggio sinfonico beethoveniano già compiutamente definito.