Dalla trasmissione radiofonica Onda Pazza:
“[…]Sì, ma a Mafiopoli è primavera, è primavera elettorale. Le margheritine abbondano, le rose sorridono, i fiori impazzano. Oh, che atmosfera! Ma al di là della stagione, al di là della primavera ci sono gli uomini di tutte e per tutte le stagioni a Mafiopoli. Basta pensare che un uomo ha sottoscritto per tre candidature diverse: ha in tasca la tessera del Pci e aveva promesso di sottoscrivere la candidatura per questo partito, poi si è deciso a sottoscrivere anche la candidatura per la lista civica e poi ha in tasca della giacca un assegno rilasciato non si sa da chi. […]”
Peppino Impastato non è solo una pietra luminosa e perenne sul fondo della nostra coscienza; Peppino è un ragazzo dagli occhi limpidi, capace di guardare oltre la siepe, di sorridere alla vita e rintracciare, nella bellezza del mondo, un contenuto, un valore, una filosofia in grado di attraversare le apparenze, sciogliere le false appartenenze, contrastare i destini.
Si avvicina alla politica per esigenza emozionale, come racconta nei suoi scritti, per reagire ad una condizione familiare divenuta ormai insostenibile, afferma; non cede al ricatto degli affetti e non si lascia corrompere dal ristretto contesto sociale tardo-contadino in cui è cresciuto, nel quale le sue sorti sembrano già segnate, in un martirio cristologico che ha rinnovato, con sé, alla fine, anche una resurrezione di ideali di giustizia.
Si libera dal codice comportamentale del clan mafioso di suo padre, come può solo un ragazzo, con la forza, il coraggio, la paura e la rabbia prorompente di un’età di speranze, maturando, gradualmente, il bisogno di incanalare la forte energia di reazione alla costrizione, in una struttura organizzata, di lotta cosciente contro un sistema di potere e prevaricazione criminale.
Attraversa e si confronta con diverse esperienze di militanza, anche deludenti e fallimentari, ma utili ad arricchire la conoscenza di se stesso e del paese complesso, ipocrita, che lo circonda, che ama e di cui diffida profondamente, con una sofferenza quasi autodistruttiva.
Purtroppo debbo riconoscere d’aver dato la mia sensibilità in pasto ai cani, scrive in quegli anni di turbolenta elaborazione della sua personalità, quando riconosce nei “personalisti” (cultori del personale) e i cosiddetti “creativi” (ri-“creativi”), quel familismo amorale a cui dobbiamo, ancora adesso, imputare la nostra radicata mancanza di coesione sociale.
Sono questi gli anni in cui fiorisce la sua creatività, il suo talento, la sua intima rivolta, che trasforma, con Radio Aut, in uno strumento diretto di controinformazione e denuncia, in un riuscito spettacolo dai toni provocatori e dissacranti, con una vena drammaturgica capace di cogliere nel vivo “gli uomini d’onore”, attraverso una cronaca parodica, ma cruda, degli atti criminali perpetrati dalle mafie sul territorio locale.
Quando viene assassinato, gli viene sistemato un candelotto di dinamite anche in bocca, perché aveva parlato troppo: ma questo ha dato risuono immenso alla sua voce e alle sue idee, che restano, più che mai, vive, presenti, attuali.
Oggi è sua nipote, Luisa Impastato, a custodire e a raccontare, attraverso l’associazione “Casa Memoria Felicia e Peppino Impastato” il patrimonio immenso che Peppino ci ha donato.
Ascoltiamo e facciamo nostro il suo impegno, testimoniato in questa intervista:
Luisa Impastato, presidente dell’Associazione Casa Memoria Felicia e Peppino Impastato, cosa significa, oggi, custodire e tramandare la memoria di uno dei più importanti simboli di lotta contro le mafie?
Custodire la memoria di Peppino, un simbolo della lotta contro la mafia e non solo, è senza dubbio un privilegio e un dovere morale, ma soprattutto una grandissima responsabilità, non solo nei confronti di Peppino e della sua esperienza di lotta contro l’oppressione mafiosa e per una società libera da qualsiasi forma di prevaricazione, ma anche nei confronti della storia di resistenza di mia nonna Felicia e di questi 43 anni di lotte che sono succeduti alla morte di Peppino.
Chi era Peppino Impastato? E quale pensa che sia l’insegnamento più grande che le ha lasciato in eredità?
Quando parlo di mio zio, soprattutto ai ragazzi, mi piace ricordare che era innanzitutto un giovane come loro. Peppino è stato ucciso all’età di trent’anni, è rimasto quindi quel ragazzo che parlava ai giovani col loro linguaggio e, incredibilmente, credo che continui a farlo ancora oggi. Era un ragazzo che aveva una grande sete di giustizia. Mio zio però, nonostante la sua giovane età, era un intellettuale, con delle idee ben precise che lo hanno portato a compiere la rottura, che molti definiscono storica, con la famiglia mafiosa da cui proveniva: non era solo il figlio di un mafioso, ma il nipote di un capomafia.
Credo che sia soprattutto questo il grande messaggio di Peppino e ciò che rende forte la sua storia, quello di essere riuscito a portare avanti con coraggio le sue scelte, ovvero di stare esattamente dall’altra parte, decidendo non solo di non seguire le orme paterne, di dissociarsi e non condividere la cultura mafiosa d’appartenenza, ma soprattutto di combattere e di lottare esattamente contro quelle idee che rappresentava il padre, nonostante questa fosse certamente la scelta più difficile da perseguire.
Come si può combattere attivamente la mafia, oggi?
Mia nonna diceva sempre ai ragazzi che venivano a incontrarla e le ponevano questa domanda, di studiare: diceva che la mafia si combatte con la cultura e non con la pistola. Credo che in queste parole ci sia ancora oggi un grande valore educativo, perché le armi più potenti di resistenza alla mafia e a qualsiasi forma di sopraffazione e oppressione sono soprattutto la conoscenza e la consapevolezza, che permettono alle donne e agli uomini di emanciparsi e soprattutto di essere liberi.
Un altro strumento che ritengo necessario per poter resistere e opporsi alla criminalità organizzata è soprattutto la coesione, l’aggregazione. La forza dello strumento collettivo ha una grande portata contro la mafia, che vince dove regna l’isolamento, dove non c’è solidarietà. Ovviamente la mia è un’idea di antimafia che parte dal basso, il contributo che ognuno di noi può dare. Per quanto riguarda l’intervento da parte delle istituzioni per arginare il potere della mafia, congiuntamente a quello della magistratura, direi che è sicuramente necessario garantire quei diritti, sulla cui mancanza fa leva la mafia ancora oggi, come il diritto al lavoro e il diritto a una vita dignitosa.
Peppino, attraverso la pura improvvisazione parodica, riusciva a mettere in onda, anzi, direi in scena, un vero e proprio impianto drammaturgico di denuncia diretta di atti criminali. Questo stile espressivo aveva catturato, con grande successo, l’attenzione degli ascoltatori.
Secondo lei, qual è il modo più efficace per diffondere, anche oggi, un clima di necessaria riflessione sulle dinamiche criminali che ancora minacciano la giustizia?
In quegli anni lo strumento radiofonico è stato sicuramente innovativo e funzionale alle denunce e al tipo di politica portata avanti da Peppino, che, inoltre, utilizzava la satira nelle sue trasmissioni dissacranti soprattutto nei confronti dei cosiddetti “uomini d’onore”, rompendo un tabù e mettendo in pratica un tipo di denuncia di per sé rivoluzionaria.
Oggi non sono cambiati solo i mezzi comunicativi, ma anche le strategie mafiose e di conseguenza il modo di fare antimafia. Ritengo che il metodo più efficace per contrastare le mafie sia l’informazione, il monitoraggio del territorio e la costante attenzione dell’opinione pubblica in modo da favorire un clima di legalità.
Ci sono militanti intellettuali che, oggi, a suo parere, portano avanti la battaglia di Peppino?
Personalmente e più in generale mi sento di parlare di tutti quei giornalisti che, incredibilmente, ancora nel 2021, sono costretti a vivere sotto scorta a causa dei pericolosi attacchi che la libertà di stampa subisce da parte della criminalità organizzata. Se penso a qualcuno che possa onorare la sua eredità, mi vengono in mente i tanti giornalisti che coraggiosamente ogni giorni lavorano e rischiano in nome della verità. Le lotte e la militanza di Peppino, però, sono troppo ampie per circoscriverle in un unico ambito, proprio perché le battaglie che portava avanti le faceva in nome degli ideali in cui credeva, come la giustizia sociale, l’uguaglianza e la tutela dei diritti umani. Credo che chiunque creda fortemente e metta in pratica questi principi possa considerarsi erede della sua storia. Oggi, per esempio, una persona che mi fa pensare a mio zio e ai suoi ideali, è Mimmo Lucano, che del resto ha spesso parlato di Peppino come mentore ideale del suo grande lavoro di solidarietà e difesa degli “ultimi”.
Peppino era, anzitutto, oltre che un militante intellettuale in prima linea, un validissimo giornalista d’inchiesta, con tutte le doti necessarie ad incarnare consapevolmente questo ruolo delicato. Come riusciva a reperire, in tempo reale, notizie attendibili sulle strategie criminali delle organizzazioni mafiose radicate sul suo territorio locale?
Sicuramente Peppino, oltre a studiare il territorio per poter poi portare avanti le sue inchieste, aveva una grande capacità d’analisi del contesto storico e culturale in cui viveva. Usava gli strumenti tipici del giornalismo, si informava, riusciva a carpire notizie anche grazie alla sua grande abilità comunicativa e al suo rapporto con la gente.
Quando una lotta sembra persa e si cade per mano nemica, umiliati, annientati, tutto sembra perso. Peppino ci insegna che un’idea forte e giusta, un valore ancorato alla vita, può sopravvivere alla morte e rialzarsi, più forte nei contenuti, anche quando privato del corpo.
Come si combatte, secondo lei, la paura della prevaricazione, della violenza, del cinismo, dell’indifferenza?
Credo che oggi uno degli strumenti più forti contro la prevaricazione, la prepotenza, l’odio e l’aridità che spesso si traducono in cinismo sia quello della solidarietà. Una solidarietà che noi nel nostro piccolo abbiamo vissuto sulla nostra pelle, che ci ha permesso di non sentirci isolati. Ovviamente io non ho memoria dei primi anni successivi alla morte di Peppino, ma so che sono stati gli anni più duri e pesanti per la mia famiglia, anni di isolamento e solitudine. Nonostante abbia comunque vissuto sulla mia pelle lo scoramento e la tensione che spesso si respirava in casa, quello che soprattutto ricordo però è che, grazie alla perseveranza e all’impegno di chi è rimasto e soprattutto di mia nonna, abbiamo iniziato a percepire che la storia di Peppino stava diventando una storia collettiva, con la conseguente consapevolezza che non eravamo più soli. Abbiamo sentito il sostegno e la condivisione da parte di tanti che hanno conosciuto la storia di Peppino, una grandissima solidarietà che ci ha abbracciato e ci abbraccia simbolicamente, che è sempre stato un grande stimolo ad andare avanti nel nostro impegno. Credo che questo sia uno dei valori su cui bisognerebbe puntare di più in assoluto, diffondendolo nelle scuole per provare veramente a educare i giovanissimi al valore della solidarietà, questo grande strumento che ci permette di sentirci umani e di non rimanere indifferenti, di non girarci dall’altra parte e di interessarci a ciò che succede attorno a noi, della cosa pubblica, del nostro territorio, possibilmente ritornando a fare politica come si faceva una volta, sbracciandosi a partire dal basso, dalle piccole cose. Un piccolo ma importante impegno quotidiano che può fare la differenza.
Grazie.
Ines Arsì