dongiovanni
/don·gio·vàn·ni/
sostantivo maschile
Corteggiatore impenitente di donne, audace e fortunato, talvolta millantatore.
Questa è la definizione che appare quando si digita su Google ‘dongiovanni’, tutto attaccato. È uno di quei nomi propri entrati nel nostro vocabolario come nome comune, tanto sono note e caratterizzanti le sue doti di seduttore. Si chiama antonomasia, e non è poi così rara. Chiamiamo mecenate un filantropo che sostiene iniziative culturali perché nella prima Roma imperiale c’era un tale Mecenate senza il quale, forse, la fortuna letteraria di Orazio e Virgilio non sarebbe stata la stessa. E così per perpetua, galeotto, ercole.
Peccato che l’antonomasia del dongiovanni sia sbagliata. Nessun Don Giovanni dell’opera e della letteratura era un dongiovanni come lo intendiamo noi, ‘corteggiatore impenitente’, con quell’eufemismo da capisciammé. Il protagonista del dramma di Tirso da Molina era un ingannatore, quello di Mozart e Da Ponte era un dissoluto. Parole degli autori stessi, altro che ‘talvolta millantatore’. Non c’è seduzione, non c’è erotismo, non c’è arte amatoria – per riprendere il già citato Orazio. C’è solo l’inganno, il cinismo, la vigliaccheria.
Michela Murgia parte da questo equivoco – se così possiamo chiamarlo – per costruire un monologo intelligente e ironico, che non vuole attualizzare la figura di Don Giovanni né darne un giudizio morale, piuttosto indagare la sua vera natura, quella scevra dal falso mito del seduttore sciupafemmine. Per farlo, la scrittrice sarda ricorre a una miscela incendiaria di amore per il melodramma, psicanalisi, critica letteraria e sociale.
Il risultato avrebbe potuto essere un ordigno potentissimo esploso precocemente nel campo del femminismo prima di essere scagliato in quello, sempre apparentemente vuoto, dei negazionisti del patriarcato. Avrebbe anche potuto essere un innocuo petardo che illumina il palcoscenico giusto il tempo necessario per rivendicare dubbie capacità esplosive. E invece no. Don Giovanni, l’incubo elegante è uno spettacolo pirotecnico riuscito, un’analisi originale e attenta di uno dei testi che ha appassionato di più i lettori degli ultimi quattro secoli, in una miriade di versioni che ne dimostra la complessità – e dunque la ricchezza – interpretativa.
Lo spazio dato al punto di vista di Elvira, Anna e Zerlina, principali personaggi femminili dell’opera, non vuole stravolgere la trama, anzi è funzionale alla narrazione del protagonista indiscusso Don Giovanni e di tutte le maschere che indossa.
Murgia non rinuncia neanche in teatro all’irresistibile libidine di scardinare i luoghi comuni, anche letterari, con il polimorfismo linguistico di cui è capace. Complementare linguaggio in scena è quello della musica, con la fisarmonica di Giancarlo Palena che rievoca le sinfonie scritte da Mozart. Una sola donna per tanti personaggi, un solo strumento per tutta un’orchestra. Per togliere la maschera a Don Giovanni, Michela Murgia sveste tutto il melodramma dei suoi drappi pomposi e arriva dritta al testo.
L’unico accenno drammatico arriva quando l’attrice, indossata una manica di una giacca maschile, dà vita a Don Giovanni, che da immateriale diventa parzialmente corporeo, seppur non ancora dotato di ragionamento.