Si chiude con un alto numero di presenze il Festival dei Due Mondi di Spoleto sulle note di “Scheherazade” di Rymsky-Korsakov con l’Orchestra dell’Accademia di Santa Cecilia, diretta da Antonio Pappano dalla bellissima piazza del Duomo, e dal teatro Menotti sulle note de “Il lago dei cigni” di Čajkovskij nella versione di Angelin Preljocaj. Si esce dal teatro con il desiderio di rivedere da capo questo ultimo capolavoro del coreografo franco-albanese, tanta è la limpida linearità con la quale scolpisce i più profondi sentimenti, che arrivano dritti al cuore dello spettatore. Il suo “Il lago dei cigni” appartiene a quei spettacoli che si radicano nella memoria e che tornano inavvertitamente per frammenti tra i pensieri quotidiani. Angelin Preljocaj, coreografo dal taglio penetrante che affonda le sue mani con sguardo disinibito tra i miti e le icone dell’immaginario collettivo per svelare aspetti ancora inediti e genio nella riscrittura coreografica (vedi “Annonciation” e “Blanche Neige”), torna a lavorare alla narrazione con un fare ancora più speciale, profondo e straordinariamente intimo. La sua versione de “Il lago dei cigni” non è solo un inno all’ecologia per lo slogan “salviamo il pianeta terra”, ma, nel restare fedele ai temi originari del balletto classico, è l’eterna lotta dell’uomo contro la natura, del verde che resiste al cemento, dell’inganno che tenta sempre di sopraffare l’autenticità, del bene che combatte il male e dell’amore che vince sull’odio. Una povera ragazza/cigno è vittima di un maleficio compiuto dal cattivo Rothbart, che ai piedi di un lago ormai prosciugato a causa del surriscaldamento globale, fa sporchi affari per sfruttare un giacimento di energia fossile. Da qui tutti gli elementi del soggetto narrativo del librettista Vladimir Petrovic Begičev restano fedeli fino alla fine. L’arrivo di Rothbart nei panni di Morpheus con la sua banda uscita dal film “Matrix”, ci fa già presagire di quali ingredienti Preljocaj ha condito questo suo Lago. La scena si apre su scenari zeppi di citazioni cinematografici dalla costruzione di grattacieli stilizzati alla “Metropolis” di Fritz Lang nelle proiezioni di Boris Labbè, ai “golden boys” del cinema americano tra azionisti e affaristi di borsa in preda a complotti di potere per il controllo sulla “new city”, che l’industria hollywoodiana ci ha abituati a vedere.
In questo scenario spicca la figura del padre di Siegfried, un uomo privo di scrupoli e avido di potere, disposto a fare affari con il cattivo Rothbart, mentre la giovane madre invita il principe ad aprirsi alle gioie dell’amore, con un fare iperprotettivo e dallo sfondo psicoanalitico.
Con questi elementi Angelin Preljocaj lavora alla partitura di Čajkovskij con tale intensità da penetrare le note, la struttura sinfonica scovando in essa quelle linee espressive e melodiche fino ad ora inesplorate dalla danza. Rispetta l’ordine dei brani e dei quadri, tra ouverture, valzer e pas de deux, ma preferisce fare delle digressioni inserendo, di tanto in tanto, tracce del collettivo contemporaneo 79D. Per inneggiare all’amore e al corteggiamento del principe Siegfried, il coreografo dà spazio ad una musica dai ritmi caldi e sensuali che satura la scena di raffinata e travolgente passionalità.
La coreografia è una macchina perfetta di passi, movimenti, architetture e disegni nello spazio che fanno appello a tutti gli stili e tecniche di danza, che liberano i corpi dei danzatori a favore di espressività, musicalità e interpretazione. Singolare il lavoro sui ventiquattro cigni asciugati da orpelli e vani formalismi. Del volatile sublimato da Lev Ivanov negli atti bianchi con le braccia incrociate in alto, ci restano dei frammenti spezzati di movimenti spigolosi alternati ad altri fluidi e flessuosi che amplificano espressività e linee. Fa ampio uso delle disposizioni simmetriche nei disegni coreografici, come tributo alla perfezione armonica e alle geometrie speculari di Marius Petipa negli ensemble, per poi romperle con altre più libere e aderenti all’azione scenica del momento. La sua danza trionfa in ogni passaggio, nulla è lasciato al caso, anche un passo, un gesto, uno sguardo sono sapientemente inseriti e calibrati nella misura sufficiente al plot narrativo, anche nel quadro del terzo atto con le danze di folklore in cui i danzatori si divertono a dare sfoggio dei più imprevedibili virtuosismi. Per Preljocaj non c’è un lieto fine e la sua linea drammaturgica rispetta lo spirito e l’essenza originari con uno sguardo piantato al presente: l’amore tra Odette, interpretata dalla fresca e ammaliante Théa Martin, e Siegfried, un morbido e sensuale Laurent Le Gall, non ha futuro. Una torbida luna nera si rovescia nel lago simbolo di un irreversibile inquinamento che intossica tutti i cigni, compresa Odette. Solo la scoperta e la consapevolezza di un sentimento vero e autentico per il bel principe possono, forse, salvarlo e purificare il mondo che lo circonda.