Verdiana Raw è artista poliedrica, cofondatrice, insieme a Teresa Maria Partenope Vitelli ed Elisa Romanelli, dell’Associazione “Museo Art Brut Firenze” e raffinata cultrice di diverse discipline espressive, in cui ha saputo incanalare straordinarie doti canore.
Gli album, “Metaxy”, “Whales know the route” e “MEDICINA NERA – Poesia Sciamanica”, sono il vero frutto della sua ricerca, che attraversa armonicamente il teatro, la danza, la musicoterapia, generi musicali e culture antiche, di cui riesce a tramandare l’essenza autentica, grazie ad un talento unico, capace di esplorare le potenzialità comunicative dell’arte, facendo di sé un tramite profondamente evocativo, tra diverse e lontane dimensioni.
Ho avuto il piacere di intervistarla e raccogliere le sue preziosissime riflessioni, per quanti già hanno la fortuna di conoscerla e per tutti coloro che, in questo modo, avranno la possibilità di farlo.
Sei una delle figure artistiche più significative di questi anni. Ci racconti dove sei cresciuta e come ti sei avvicinata alla musica?
Grazie della generosa presentazione.
Sono cresciuta a Firenze da genitori siciliani; le mie prime memorie di appartenenza si dividono fra questi due luoghi. Mia madre era un’insegnante di educazione musicale delle scuole medie e, da che ricordo, sono sempre stata immersa nella musica, soprattutto classica e molta, molta, molta Opera. Ho cominciato piccolissima, frequentando la Scuola di Musica di Fiesole; racconti familiari vogliono che fui io, ancora cinquenne, o poco più, a scegliere di suonare il violino. A casa c’era anche qualche vinile di musica “leggera”. Rimasi completamente sconvolta da quello di Renato Zero: passavo le ore a contemplare questo bel ragazzo dalla chioma fluente, il trucco e la veste femminile Paleobarattolo e l’imbarazzo degli adulti mentre cantavo – senza capirci nulla – Ti bevo liscia all’ora del tè. Insomma, ho scoperto la canzone e ho sempre cercato di mettere insieme quei mondi che sembravano distanti.
La poesia, l’interpretazione, l’espressione figurativa, la performance, l’installazione: l’arte si esprime attraverso forme mutevoli e tra loro comunicanti. Quali sono, secondo la tua personale intuizione creativa, le caratteristiche di ciascuna?
Vorrei dire questo: partiamo, più o meno tutti, da un superamento di un qualche trauma infantile. Nulla di nuovo. L’arte per me è stato un mezzo, un talento, per superare quel limite. L’ho usata senza preconcetti specialistici, come ho sempre cercato di prendermi cura della mia crescita sotto molteplici aspetti. Il mio input è stato quello di testimoniare e condividere la scoperta di me e la conferma delle mie intuizioni come una unica continua performance, in cui gli strumenti si uniscono e si contagiano.
La poesia per me è il linguaggio sotteso all’osservazione, lo stare nella realtà senza sentirsene alienati. Nella poesia, in fondo, vi è il suono puro, nel suono il corpo puro, nel corpo la visione e così via, in una danza perpetua. Non c’è, da parte mia, la capacità di una assolutizzazione del mezzo, ma, a seconda di ciò che ho bisogno, di osservare e decidere come essere presente, pur con la consapevolezza che, ad esempio, la musica si rivolge più agli affetti, ma posso renderla scevra da pateticismi per farne un alleata nella meditazione. La scrittura porta ad un diligente discernimento comunicativo, ma l’abbandono alla musicalità della parola può rivelarsi altrettanto mirato. Con il progetto Medicina Nera ho voluto dare più dimensioni possibili alla poesia che ne sta alla base; usando ciascuno strumento nella sua specificità (suono, scrittura, fotografia, video), probabilmente non facendone una sintesi oggettiva, ma creando e assemblando ogni parte pensata in funzione dell’altra, come un organismo vivente in cui ciascun pezzo non può essere pensato separato. Quindi la voce è registrata rispettando un’idea di lettura solitaria, la musica apporta un contenuto emotivo ma non pregiudizievole, il video creato da Erika Errante trae spunto da una traccia, da un poesia musicata, ma diventa un mondo nuovo che si lega alla suggestione principale senza esserne condizionato, come un piccolo film. La liquidità dei mezzi non ne sminuisce le caratteristiche singolari. Così vale fra gli artisti, oltre che fra le arti.
L’istallazione ha molta della mia simpatia, mi piace l’idea di un’opera viva nel momento, senza la mediazione della presenza dell’artista; in particolare quelle essenziali in cui si sfruttano i giochi sonori degli ambienti naturali.
Mi chiedi delle arti figurative; spesso parto da un’immagine per creare un suono e quando improvviso, prima del nulla, mi appoggio a immagini interiori. Osservo e contemplo per meditare. Mi occupo di Outsider Art con l’Associazione Museo Art Brut e l’efficacia delle opere di artisti non professionisti, talvolta, rimette in discussione ogni canone di comunicazione che ho accumulato prima, per fortuna.
Durante un laboratorio ho provato a proporre un esercizio; avevo un vecchio catalogo del Moma di NY (credo degli anni ’80) e ho chiesto di scegliere un’opera, di creare un movimento da un dettaglio della immagine e di legare la voce al gesto. Ciò che gli altri descrivevano era, senza saperlo, esattamente l’opera a cui si riferiva chi svolgeva l’esercizio. Ancora una volta, mi piace collegare.
Il tono della voce e, in genere, tutti i linguaggi paraverbali corrispondono alla parte più autentica della comunicazione. Le tue espressioni sonore lo dimostrano sicuramente. Ci racconti i tuoi studi, il rapporto che hai costruito, nel tempo, tra musica e voce e, soprattutto, il rapporto tra le tue emozioni e la tua capacità di espressione vocalica?
Questa domanda apre la porta a molte riflessioni, rimarrò sulla mia esperienza.
Non so se parlare di autenticità quanto di onestà.
Ho iniziato a studiare molto seriamente molto presto; la mia sopportazione delle scuole si è esaurita relativamente in fretta.
Ho continuato da autodidatta.
Senza pudori né regole, un po’ nascosta dietro la fragile autorevolezza spontanea e socialmente tollerata dell’espressione canora. Il lavoro su di sé non lo si può fare tramite altri.
Quando poi ho incontrato le sperimentazioni vocali degli anni a cavallo fra i ’70 e i ’90, ho capito che volevo fare quel mestiere lì e che c’era chi come me ringraziava quell’audacia e quella lungimiranza.
Avendo scelto la forma canzone che prevede un testo, ho cercato di rendere più preciso il suono in aderenza alle parole scelte.
Ho scelto poi di studiare musicoterapia, un’esperienza fondamentale che ha rimesso in discussione le mie responsabilità e le mie possibilità come artista e come musicista; ho cercato la potenza nel sussurro e nel contenimento. Non ho più creduto di dover portare un fardello artistico, ma di essere un pezzetto di un grande mosaico bello e fragile. Questo ha cambiato la mia percezione di cosa voglia dire comunicare e perché farlo davvero.
Infine ho seguito da poco un percorso con l’artista Marcella Vanzo, fondatrice di una ardita Scuola di Performance a Milano che si chiama The Momentary Now, (forse una contraddizione per una come me che non ama le Scuole); mi piace studiare quello che solitamente non è considerato insegnabile. La storia della Performance Art, per quel che mi riguarda, è stata la piattaforma di partenza per immaginarmi nuove strade.
Il canto, l’arte, sono discipline di libertà; come il volo, sono sostenute dall’ispirazione, governate da regole, tecnica, forza, padronanza, gestione consapevole e, forse, la completa dimenticanza di tutto questo?
L’hai detto. Potrebbe essere una metafora ben più ampia. Credo che alla base ci sia l’intuizione di poterlo fare e la scelta di un senso.
Ho alternato disciplina ed esplosioni centrifughe; tenendo insieme gli opposti apparenti si va avanti.
Quali influenze filosofiche, spirituali e storiche raccolgono i contenuti dei tuoi brani?
Mi hanno affascinato i mistici cristiani e orientali più lontani nel tempo e più vicini a noi, o le scienze che sono curiose dell’Invisibile; temi come quello del Tempo, dell’origine dell’Intuizione e dell’Archetipo Materno sono fra i miei favoriti. Nella musica cerco di far convergere la preparazione classica occidentale con le tradizioni vocali mediterranee, la tragedia greca e l’Opera, con la tenerezza e la passione della lirica popolare dei secoli più recenti.
In Metaxy lo spunto partiva da Platone, le idee e l’interregno fra divinità e umano, coglieva gli studi medianici, alla luce della scoperta della psiche e dell’inconscio, approcciava la cultura Romantica assimilandola al credo punk. Big Eyed Dog si riferisce alla geometria sacra, all’indagine sul sogno premonitore; Dining Alone parla del mio rapporto con la medianità, Japanese Garden cita il “darkpunk”, Escaping from the guards è un omaggio senza parole alle utopie socialiste e anarcocristiane, in Headless Baby Bitch vi sono le parole di una bambina dalla quale si aspetta ‘educazione e sottomissione’ ma che non smette mai di credere nella sua buona stella e innocenza.
In Whales know the route cito Durme Durme, (ninna nanna sefardita) e l’interpretazione del brano popolare italiano Pacienza nenna mia, come legame con la poesia popolare e i suoi contenuti appassionati.
Time is circular può essere rappresentativa di buona parte dei temi che mi interessano: il concetto di karma, il rapporto con le esperienze traumatiche infantili e il loro superamento (it’s not a fault, if my mother is ill and your father died when you were fourteen), anche se, oggi, più che dalla psicologia, partirei dalla poesia, una pedagogia alla Edgar Morin, Rubem Alves, Don Milani; le riflessioni sulla capacità di cura dell’arte (when I am dealing with my failed therapeutic side); le nuove scienze che spiegano l’importanza del supporto amorevole come base della crescita, ma anche la tentazione di cercare, nelle scienze ,una guida per spiegare tutto (an essay of neurobiology becomes the new Bible); l’idea di Tempo non come linea ma di un punto o sfera in cui tutto accade contemporaneamente (Time is circular), ma allo stesso tempo la difficoltà di applicare, ciò che si legge sui libri, nei conflitti quotidiani (So while I’m in the car try to explain it to the one I hit in front of me; Why am I so dangerous when I am full of love), anche con una buona dose di ironia.
In tutto questo, però, parto, come sempre, da me; nomi, teorie, filosofie, libri, vengono dopo quello che mi ha attraversato in prima persona. Una battuta, un animale, un gesto, un sogno, un momento, una mancanza, una caduta.
Per il nuovo lavoro, credo, sarà fondamentale l’incontro che ho avuto con i corsi di Angela Volpini, mistica contemporanea. Cito solo una delle frasi che le avrebbe comunicato Maria in una prima apparizione: “Sono venuta ad insegnarvi la via della felicità sulla Terra”. Vorrei trasportare parte dei contenuti che ho cercato di apprendere da Angela nel nuovo lavoro; mi pare necessario. Non so se mi riuscirà o se sarà davvero così. Vedremo.
Quale progetto artistico desideri realizzare in futuro?
Già da tempo non riesco a dare definizione ai miei progetti. Farò sempre canzoni, sto ultimando il terzo album, spero di tornare presto ai concerti, ma il sistema ormai non regge più; i metodi sono vecchi. Ora che tutti siamo davanti a dei cambiamenti di paradigma e di coscienza, a maggior ragione faccio appello a quella vista interiore di cui parlo in Whales know the route, che sa di dover continuare a navigare anche se momentaneamente al buio.
Voglio contribuire, in qualche imperscrutabile modo, alla Nuova Poesia che sta arrivando, qualunque essa sia. Mi spiacerebbe molto capire di essere rimasta intrappolata nel Purgatorio, a cui sembra condannata la mia generazione.
Giorgio La Pira afferma: “C’è una primavera in questo inverno apparente”. Parole simili a quelle di Camus che ho usato in un testo del nuovo lavoro: “Au milieu de l’hiver, j’ai découvert en moi un invincible été”.
Grazie.
Ines Arsì