È andata in scena a Torre del Lago una nuova Turandot, una coproduzione con il Teatro Goldoni di Livorno, affidata alla regia di Daniele Abbado. Questo nuovo allestimento è anche l’occasione per il Festival Puccini di proporre per la prima volta sul suo palcoscenico l’opera con il finale composto da Luciano Berio nel 2001, ben distante per linguaggio musicale del finale tradizionale di Franco Alfano. Il finale di Berio cambia radicalmente la drammaturgia del passaggio chiave della Turandot, quando il gelo della principessa crudele si scioglie davanti alla passione amorosa, e lo dilata in un ricco interludio sinfonico con l’introduzione di elementi wagneriani ed echi novecenteschi che magnificano la modernità di Puccini.
Daniele Abbado rinuncia al folklore cinese di maniera e crea uno spettacolo compatto e visionario che ben sostiene lo sviluppo emozionale della favola pucciniana. Il colpo d’occhio iniziale è potente, fra torri nere in movimento, cupi murales e bracieri che fumano. L’alternanza di grandi pareti scure, giganteschi tableau che si muovono e poi si riassemblano, e di spazi vuoti crea una cornice che rimanda più a certe pellicole distopiche che a una Cina imperiale da cliché. Anche l’azione assume un carattere più aspro: il Principe di Persia non solo è giustiziato, come nell’originale, ma denudato, irriso e torturato in una segreta. Ad Angelo Linzalata che realizza le scene si devono anche le luci, eccellenti nel supportare la narrazione. Luci a tratti soffuse e notturne, a tratti più abbaglianti come quando Turandot appare in una bolla di luce, quasi come una super-eroina fantasy. Belli e curati i costumi di Giovanna Buzzi, dalle masse asiatiche in nero agli abbigliamenti più colorati dei tre funzionari imperiali. E l’atmosfera creata da Abbado, a tratti evanescente e per nulla pomposa, si ben fonde con il linguaggio musicale di Berio, delicato e meno tripudiante e ovvio di quello di Alfano.
L’orchestra del Festival, ai comandi sicuri di John Axelrod, ricrea con sapienza la diversità di forme musicali della pagina pucciniana e nel cast spicca la Liù accorata di Emanuela Sgarlata. Il giovane soprano, sorretta da una recitazione morbida, sfoggia una voce ricca di calore e di colori. In “Tu che di gel sei cinta”, rimanda tutto il pathos che agita Liù davanti al congedo dalla vita. Il tenore siciliano Ivan Magrì veste i panni di Calaf e dopo un inizio un po’ faticoso guadagna il favore del pubblico per la bella interpretazione dei pezzi forti del ruolo, da “Non piangere, Liù!” a “Nessun Dorma”, molto festeggiato dalla platea. Non convince del tutto Emily Magee al suo debutto nel ruolo della protagonista. Il soprano americano, pur sfoggiando mezzi vocali possenti, restituisce una Turandot piuttosto monocorde e sempre algida, anche nel grande duetto finale quando la principessa glaciale dovrebbe soccombere al trasporto degli affetti e trasformarsi in tenera amante. Eccellente per voce e gesto il Timur di Nicola Ulivieri. Simpatici i tre ministri Ping (Giulio Mastrototaro), Pong (Marco Miglietta) e Pang (Andrea Giovannini).
Alla fine della recita entusiasmo in platea e applausi convinti per tutti i protagonisti della serata.