La grazia emaciata del cigno con il suo piumaggio leggiadro dal fascino eterno esercita ancora un forte appeal sull’uomo moderno e digitalizzato, influenzando i nostri gusti e attraendo il nostro sguardo. Così la danzatrice e coreografa Loredana Parrella ha dato inizio al suo “Cigno”, lo spettacolo d’apertura della seconda settimana di Corpografie andato in scena lo scorso 9 settembre allo Spazio Matta di Pescara, per il festival di danza contemporanea diretto da Anouscka Brodacz. Il suo è un viaggio quasi autobiografico che a partire dell’iconica ballerina cigno in tutù bianco, leggera, aerea e in volo, suggestiona e nutre il suo pensiero coreografico. Loredana Parrella, direttrice della compagnia Twain physical dance theatre è seduta ad un lato della scena, mentre sfoglia un taccuino, una sorta di diario degli appunti dal quale snocciola i suoi ricordi d’infanzia e il pubblico lentamente si accomoda in platea. Soffermandosi sul desiderio di leggerezza che la spinse a studiare danza sin da bambina, la danzatrice si racconta così per fotogrammi. È il cigno a guidare la sua narrazione che procede per quadri narrativi, in ognuno dei quali Loredana Parrella dispiega una precisa qualità di movimento in un punto diverso della sala. Dal flusso alle direzioni il focus è ogni volta diverso, come diverse sono le fasi della sua esistenza che sceglie di mettere a fuoco di volta in volta. Dell’intramontabile “La morte del cigno”, che Michel Fokine coreografò nel 1907 per Anna Pavlova su musica di Camille Saint Saëns, Loredana Parrella ci lascia un vago richiamo, una accennata suggestione sonora, mentre il rimando al suo valore simbolo, alla posa del volatile, destrutturata, e poi smontata per frammenti ritorna ogni volta a puntellare l’impianto drammaturgico della pièce. La coreografa e danzatrice Parrella sviscera così il gesto del volo e spezza le ali per aprire un dialogo sulla leggerezza, sul flusso, e sul peso alludendo alla cinesfera labaniana, in un citazionismo misurato con la danza classica che ben si lega ad un viaggio al femminile.
Di tutt’altro “allure” è invece il viaggio proposto da Masako Matsushita, con Un/dress moving painting, andato in scena lo scorso 10 settembre. Una spazio bianco delimitato da tanti reggiseni incolonnati sulla destra, mentre a sinistra tante fasce nere che si intersecano tra loro tracciano la scena nella quale si muove con massima lentezza la danzatrice Elena Sgarbossa. Assistiamo ad una vestizione ripetitiva che punta a ricoprire il corpo piacevolmente morbido e tondeggiante della Sgarbossa dai numerosi capi di biancheria intima che sommati uno sull’altro modellano un vero e proprio abito. Il corpo esibito è un involucro da ricoprire con minuziosa scelta di movimenti centellinati e dilatati che legano tra loro in “slow motion” pose, mai statiche, che il corpo assorbe. Via via si liberano con potenza visioni e immagini dal nostro immaginario collettivo che scorrono dalla bellezza botticelliana, all’Olympia di Manet, attraversando le bagnanti di Gauguin, come tanti stereotipi di bellezza femminile che la cultura occidentale ha partorito. Tutto si azzera, si semplifica e si asciuga nel momento in cui le tante strisce nere incrociate rivestono successivamente il corpo di Elena Sgarbossa. Il nero sulla pelle nuda si offre allo sguardo dello spettatore come icona e simbolo di una bellezza orientale dove la linearità delle forme rimanda alla saggezza mistica della terra del sol Levante, alla sua lentezza e alla sua misteriosa cultura millenaria.
Calcolo, perfezione, gioco matematico di gesti, sguardi, ripetizioni calibrate in evoluzioni e a incastro perfetto sono stati gli ingredienti scelti dal Collettivo di drammaturgia in “A più voci”, diretto da Anouscka Brodacz, ben amalgamati sulla partitura di “Six Pianos” di Steve Reich, in scena domenica 12. Il suono ipnotico e minimale funge da guida in questa coreografia algida e in continua trasformazione pronta, nel suo divenire, a generare nuovi stadi coreografici. Il dialogo tra danza e suono si estende e si amplifica di risonanze ed echi nello spazio urbano del parco di Villa Sabucchi. Nel rigore formale e minimale di gesti e movimenti reiterati, gli undici danzatori dispiegano un linguaggio personale, riflesso di una propria cifra stilistica che ben si fonde all’impianto sonoro che pure sorprende nelle sue variazioni. L’ensemble dà vita ad una coralità virtuosa che offre allo spettatore possibilità immaginarie inedite.