L’intervista a Viviana Simone, attrice e regista dello spettacolo “La Rivalsa delle Streghe”.
Con quest’intervista analizziamo a fondo i suoi pensieri e punti di vista per conoscerla meglio.
-Ciao Viviana, cosa ti ha spinto ad intraprendere questa carriera? Come è iniziato tutto?
Ciao a tutti, ho cominciato a fare teatro da bambina, quando avevo circa otto anni. Non solo il palcoscenico ma anche la sala prove in cui allenarsi, studiare e prepararsi all’incontro con il pubblico, mi hanno sempre fatto sentire a casa: lì mi sentivo esattamente al mio posto, dove dovevo essere.
Tuttavia ho pensato di poter fare di questa passione il mio mestiere, solo a vent’anni quando, insoddisfatta della carriera universitaria che stavo intraprendendo, mi sono ricordata le parole di un’insegnante – regista con cui avevo collaborato da adolescente: “Tu hai le carte per poter fare questo mestiere, per poter fare l’attrice”.
Così, senza neanche crederci troppo, mi sono preparata ai provini per le accademie di recitazione. Ho superato il provino a “Fondazione EUTHECA” e mi sono trasferita a Roma. Solo a metà del secondo anno accademico, però, ho avuto la certezza che volevo vivere una vita in bilico, che non avrei potuto fare altro e ho accettato, quindi scelto, che il teatro fosse esattamente il mio posto, dove dovevo essere.
-Quali sono i punti di riferimento attorno al quale ruota il tuo mestiere di attrice\attore?
Risponderò citando le cose che ripeto a me stessa nei momenti più critici del lavoro: “sostanza e non apparenza”, sia nello stesso atto teatrale che nelle relazioni che si intraprendono nell’ambiente; “resta lì dove fiorisci”, perché non dobbiamo mai essere privati dell’amore e la gioia di fare questo mestiere, quindi bisogna anche saper dire no a ciò che non ci mette nelle condizioni di lavorare al meglio; “è un atto d’amore”, perché questo credo sia l’essenza dell’essere artista; “il corpo prima di tutto”, perché è il corpo che comunica prima della parola, è l’azione che racconta prima della voce; da qui nasce l’approccio che io ho al teatro: un approccio fisico, che si aggrappa al fare e non al pensare.
-Quali sono le principali difficoltà che si incontrano con il lavoro teatrale?
Di sicuro le principali difficoltà sono la non continuità del lavoro e il non essere tutelati e inquadrati lavorativamente in modo chiaro dallo stato italiano: non percepiamo nessun sussidio di sostegno nei periodi in cui non lavoriamo, nessuno ci riconosce come lavoratori affidabili e abbiamo problemi a stipulare persino un semplice contratto di affitto di casa perché non abbiamo busta paga. Subiamo, in qualche modo, il nostro stesso essere artisti come se ancora, in questo paese, non fosse pienamente riconosciuto che fare l’attore/attrice sia un mestiere (o per lo meno non è così se non sei stato almeno una volta in tv).
Aggiungo che purtroppo, quello del teatro, è un ambiente non sempre meritocratico e viviamo un periodo storico in cui le scuole di teatro e gli aspiranti attori superano di gran lunga i teatri e la richiesta di teatro da parte del pubblico, quindi siamo tanti ma con poco lavoro a cui prender parte. Ciò rende la sopravvivenza in quest’ambito sempre più difficile oltre a inquinare molto la qualità delle produzioni teatrali che si fanno “pur di lavorare”.
-Quando hai cominciato a percepire te stesso\a come artista?
Circa due anni dopo aver conseguito il diploma accademico rincontrai il mio professore di Acrobatica che mi disse: “Finché tu non riconoscerai di essere un’attrice, gli altri non vedranno questa cosa in te. Non avrai mai credibilità ad un provino o quando ti proporrai per un lavoro.”.
In quel momento capii che dovevo fiorire, dovevo liberarmi dal bozzolo della giovane attrice appena diplomata che prova a fare teatro e dovevo riconoscermi come artista, come attrice con ancora molto da imparare ma con già delle piccole competenze da poter spendere e con le quali mettersi in gioco. -Durante la tua carriera, il pubblico, come ha modificato il tuo modo di stare in scena?
Il pubblico mi ha insegnato a dosare le energie sulla scena. Mi ha insegnato ad avere la calma, sul palco, che mi permettesse di scegliere quando esplodere e quando implodere; quando scatenarmi in un coinvolgimento totale e quando invece dedicarmi ai dettagli, con cura e gentilezza, in base a quello di cui gli spettatori hanno bisogno. In breve il pubblico mi ha insegnato a “stare”. Realmente.
-Di conseguenza, quando sei in scena, quanto conta il pubblico per te?
Senza pubblico la magia del teatro non avviene: non c’è scambio, non c’è comunicazione e comunione quindi, senza il pubblico, non c’è teatro. Questo rende il pubblico fondamentale e rende il nostro lavoro completamente diretto allo spettatore. Non possiamo auto-celebrarci o dare spazio ad estri comprensibili solo a noi che calchiamo il palcoscenico. Noi lavoriamo per gli occhi che ci cercano dalla platea. Sempre.
-Facendo riferimento allo spettacolo “La Rivalsa delle Streghe”, qual è il messaggio implicito che volete trasmettere? E quali sono i momenti dello spettacolo che ti sono restati più impressi?
Il messaggio de “La Rivalsa delle Streghe” è molto esplicito in realtà. Lo spettacolo tratta l’urgente tema della difesa dei diritti delle donne e chiede a gran voce la parità di genere in tutte le nazioni del mondo. I momenti che più amo dello spettacolo sono, infatti, i monologhi dei due personaggi femminili che, cercando disperatamente rispetto ed emancipazione, proclamano la necessità di riflettere ancora e sensibilizzarsi su problematiche che si possono ritenere “superate” ma che in realtà bruciano ancora e che ancora separano enormemente l’uomo e la donna, che non dovrebbero mai essere in conflitto ma dovrebbero accompagnarsi con rispetto e amore in qualità, prima di tutto, di esseri umani.
-Generalmente per un attore bisogna avere chiaro cosa il personaggio sia per se stesso, assorbirlo, e avere poi l’elasticità di farsi guidare dalle emozioni del momento. Ci racconti come ti prepari? In particolare per il personaggio che interpreti in “La Rivalsa delle Streghe”.
Per realizzare questo spettacolo è stato necessario un grande percorso di ricerca e training fisico che ci portasse a creare le posture, le fisicità e le caratterizzazioni fisiche dei personaggi. Fisicità che, a seconda dei contesti, influenzano estremamente gli stati emotivi degli interpreti e, quindi, dei personaggi. Unendo quindi il concetto che “la forma diventa sostanza” ad una attenta analisi degli obiettivi dei personaggi (la Commedia dell’Arte non contempla l’analisi psicologica dei personaggi ma un’analisi delle urgenze, degli istinti, degli obietti essenziali di ogni maschera), si è creata pian piano la stratificazione interpretativa di ogni personaggio.
Tale lavoro di preparazione è durato 4 mesi con settimane alterne di lavoro: questo ha fatto sì che il lavoro sedimentasse in ognuno di noi e che fosse estremamente facile recuperarlo e riproporlo sulla scena in ogni replica.
Quindi, prima di andare in scena, mi preparo con un piccolo riscaldamento fisico e mentale, ripercorro sul palco le scene per me più ostiche (sia tecnicamente che interpretativamente) e, appena prima di iniziare, canto una canzone insieme ai miei colleghi così da ricreare una dimensione di insieme, di coesione e così da riconnetterci energeticamente.
-Ti è capitato d’interpretare personaggi lontani dalla tua personalità?
Io credo che nessun personaggio ci sia realmente estraneo. Anche quello più lontano da noi ha sicuramente un punto di congiunzione con lati di noi magari nascosti o molto profondi con cui poi riusciamo a nutrire l’interpretazione del personaggio in questione. Ciò comporta processi di crisi talvolta molto intensi ma che quasi sempre portano a grandi scoperte e grandi soddisfazioni. Quindi si, mi è capitato di interpretare personaggi lontani dalla mia personalità ma ho sempre scoperto che erano vicini a me più di quanto pensassi.
-Per concludere, cosa non può mancare per riuscire a fare l’attore teatrale? E cosa ti sentiresti di consigliare a un giovane collega che sogna di intraprendere questa strada professionale.
Credo che scegliere di vivere di teatro oggi sia un grande atto di coraggio che non si può affrontare senza una grande tenacia. Bisogna non lasciarsi intimorire o scoraggiare dalle mille difficoltà che si possono incontrare, dai mille no o dalle mille porte sbattute in faccia; bisogna accogliere le sconfitte e da quelle crescere, trasformandole in energia attiva e creatrice che ti porta ad andare avanti. Bisogna non abbassare mai la guardia e non sentirsi mai arrivati, continuare a studiare e formarsi sempre, andare a teatro ed essere un attivo spettatore, perché non puoi lavorare in un ambito che non conosci anche da fruitore.
Credo che servano, infine, grandi onestà e umiltà, con se stessi prima di tutto (perché bisogna saper riconoscere se si hanno effettivamente le doti e le caratteristiche caratteriali giuste per vivere di teatro) e poi con tutto il resto dei colleghi e dei collaboratori che si potranno incontrare nel lavoro.
Natalucci Luisa