Vita nel cuore dell’amore e della fede,
la raccolta di poesie di Domenico Distefano che prendiamo in considerazione in questa sede, è un esempio di autobiografismo creaturale nel quale l’io – poetante effonde i suoi stati d’animo sulla pagina quando proprio la poesia stessa fa il miracolo e la creatura cioè il poeta stesso diviene persona.
Una vena tout-court neolirica ed elegiaca alimenta i componimenti di questa preziosa silloge che presenta una prefazione di Nazario Pardini acuta, sensibile e ricca di acribia nel cogliere in profondità il senso dell’opera.
In un panorama come quello odierno della poesia italiana contemporanea questo lavoro si rivela originale perché va controtendenza; infatti attualmente le tantissime opere di poesia che vengono pubblicate in Italia risultano complesse, spesso oscure e sono il frutto di personali sperimentalismi.
Per un critico imbattersi in un poiein, come quello di Distefano, è un fatto sorprendente perché ci si trova di fronte a composizioni sorgive, chiarissime e mai elementari, sempre d’occasione.
Il trinomio cuore, amore e fede si fa una cosa sola e si svela attraverso una parola quasi sempre gioiosa e stupita nel credere in Dio, che ha creato la Natura che è protagonista del volume.
Ma l’essere umano stesso è Natura e quindi lo sono anche i figlioletti e il padre del poeta ai quali sono dedicate molte composizioni e del resto la Natura matrigna per Leopardi è stata definita da Goethe come l’abito vivente della divinità.
Bellezza e linearità dell’incanto costituiscono la cifra distintiva della poetica del Nostro che come persona ha il privilegio di sapersi stupire dinanzi allo scenario della vita, assaporando gioie quotidiane semplici eppure fondanti nell’esistenza dell’individuo.
Un canto estatico dinanzi alla vita stessa che ha qualcosa di vagamente paragonabile al Cantico delle creature di San Francesco D’Assisi.
Uomo di fede Domenico si fa anche portavoce del profitto domestico implicitamente nel senso della fiduciosa alternanza delle generazioni che si passano il testimone l’una con l’altra come in una sportiva staffetta.
Il testo non è scandito e per la sua unitarietà formale, stilistica e contenutistica potrebbe essere considerato un poemetto che diviene implicitamente un inno di lode a Dio innanzitutto per la gioia che concede al poeta di poter avere una moglie e dei figli da amare e si deve comunque sottolineare che l’amore del poeta è in primis quello per Dio Padre il Creatore.
Anche un senso di struggimento per il tempo che passa pare alimentare questa raccolta quando in una poesia si rivolge all’amatissima consorte e la invita a ripensare ai giorni magici e incantevoli della loro giovinezza vissuta insieme nell’interanimarsi con le bellezze della natura stessa.
Un linguaggio colto con una patina di neoclassico si rivela in questa silloge e uno dei versi è scritto in lingua greca antica («… Complici il silenzio / ed Eros giocherellone, / della cipride Afrodite figlio, / risplendevano fiori di sogno / in un dardeggiar di sole / e volavano promesse / di percorrere insieme / il resto del cammino / e dividere a metà gioie e dolori. / “Kαί ἐγώ σέ φιλῶ” / ti dissi in greca lingua / e tu mi prendesti per mano, / per varcar la soglia, / che conduce all’infinito: / “Il nostro amore – mi dicesti – / non avrà mai fine, vive e vivrà con noi e oltre”….», A mia moglie, ieri, oggi, domani).
E forse la forma d’amore più toccante messa in scena dal poeta è quella per i suoi bambini, figlioletti tenerissimi e indifesi, fanciullini, se il poeta stesso secondo la poetica di Pascoli per il suo stupore empatico per la realtà è un fanciullino.