In Doppio sogno, scritto nei primi anni Venti del Novecento, Schnitzler indaga le dinamiche del desiderio e dei sentimenti di una coppia borghese di sposi. In un lungo racconto, che sconfina nell’incubo e nel fantastico, è raccontata la folle notte del dottor Fridolin, che, uscito di casa dopo una discussione con la moglie Albertine, si trova coinvolto in un’inquietante serie di eventi e incontri a sfondo sessuale. Carmelo Rifici ha scelto questo testo per condurre un lavoro con un cast di giovani attrici e attori sui temi del rapporto di coppia, della gestione della violenza all’interno delle relazioni e della costruzione del concetto di identità attraverso il continuo “specchiarsi” nell’altro.
Su una scena disegnata da arredi che il regista ha voluto anneriti da un fuoco che simbolicamente distrugge le strutture tradizionali, imponendo loro un ormai inevitabile rinnovamento, si muovono diversi Fridolin e diverse Albertine: il tema del doppio ‘esplode’ in un gioco di riflessi che riverberano all’infinito voci e sguardi.
Nato come saggio finale a coronamento dell’ultimo, in ordine di tempo, percorso formativo delle allieve attrici e degli allievi attori della Scuola di Teatro “Luca Ronconi”, Doppio sogno entra ora a far parte del cartellone del Piccolo Teatro di Milano, in una stretta continuità tra orizzonte pedagogico e professionismo. Nella lucida riscrittura per la scena di Riccardo Favaro, per la regia di Carmelo Rifici che con mano sensibile e attenta guida un cast di giovani interpreti in buona parte rimasto invariato rispetto a quello dello spettacolo di diploma, il celebre romanzo breve di Arthur Schnitzler, composto nei primi anni Venti del Novecento, si fa specchio straniante del nostro presente. Attraverso l’eccentrico filtro di una novella di un’altra epoca, l’ipnotica e ondivaga prosa dell’autore austriaco porta il pubblico a interrogarsi su questioni di radicale contemporaneità legate, ad esempio, alla prismatica realtà dell’erotismo, all’oppressione e alla liberazione dei corpi, al mistero del desiderio e delle pulsioni, al conflitto – represso ma sempre sul punto di esplodere – tra istinti e controllo sociale, nonché alle ambivalenze del rapporto di potere tra i sessi, lungo l’incerta linea che separa amore e violenza. Prende così vita un’esplorazione perturbante e seducente alle radici dell’identità individuale e collettiva, che chiede a tutti noi il coraggioso atto di spogliarci delle nostre finzioni.
Claudio Longhi
Come è cambiato?Se l’impostazione della regia e del lavoro con gli attori rimane invariata, la grande differenza tra le due messe in scena sta nella maturazione che si richiede agli interpreti, nella maggiore sedimentazione in loro del testo e dei personaggi, processo che finisce per attribuire allo spettacolo una nota più malinconica. Deposto lo stato d’animo allegro e spensierato di quando si chiude un percorso, i protagonisti si sono avventurati tra meandri più inquieti e oscuri. Sono altri, sono trasformati, hanno lasciato un nido sicuro per affrontare un mondo caotico e incerto e questo li ha destabilizzati. Ma non è detto che sia un peggioramento: essere travolti dalla vita porta sempre qualcosa di interessante sul palcoscenico.
Perché Schnitzler riesce sempre a insinuare in noi un disagio così forte?
In questo spettacolo, il disagio che avvertiamo nasce, secondo me, dallo strano rapporto che si crea tra dei corpi desideranti e castrati – che esistono anche nella nostra società – e una sorta di linguaggio costruito che ci definisce, disegna i nostri ruoli, il nostro modo di pensare, ci instrada su un preciso percorso di vita. È qualcosa che ci minaccia, che pensiamo ci appartenga, ma invece è vettore di tremende novità: era così nell’Austria prenazista di Schnitzler, lo è nella realtà odierna. Questa sorta di narrazione dominante, di parola dominante si traduce in una cultura altrettanto dominante che schiaccia il rapporto tra Fridolin e Albertine, mettendolo alla gogna. Soprattutto mette i loro corpi in una condizione continua di nascondimento, come se si dovessero difendere da un attacco. Perciò oggi, più che la raffigurazione della castrazione sessuale – che pure permane, dal momento che ci illudiamo di essere liberi ma non lo siamo affatto – è l’azione molto potente del linguaggio a insinuare in noi disagio e inquietudine.
Forse anche perché siamo ancora nostro malgrado immersi nella pandemia?
In questo momento credo che qualunque cosa viviamo, anche la visione di uno spettacolo che si muove all’interno di una certa complessità, ci rimandi, volenti o nolenti, alla pandemia. Siamo molto fragili e siamo immediatamente toccati da tutto: poi, che la società di Schnitzler fosse cristallizzata, rifiutasse il contatto e l’eros libero, e che questo ci faccia pensare al confinamento, è implicito. Al di là di tutto, è sorprendente ascoltare parole così lucidamente profetiche, come Freud stesso ebbe modo di dichiarare in una lettera famosissima che indirizzò a Schnitzler, dove gli diceva che, con i suoi testi, lo aveva preceduto.
In scena abbiamo diversi Fridolin e diverse Albertine, come se i personaggi si riflettessero in specchi che ne riproducono l’immagine all’infinito…
Il rapporto col doppio è un tema che porto con me da tanto. Nel caso di Doppio sogno, possiamo guardarlo da due punti di vista. Il primo è rappresentato dal testo stesso: non c’è personaggio che non sia la continua evocazione di Fridolin o di Albertine.
In qualunque avventura, vera o presunta, reale o sognata, che marito e moglie affrontano nel giorno e mezzo di “viaggio” del racconto, ciascuno di loro continua a incrociare il partner sotto mentite spoglie. In aggiunta a questo, ravviso una componente antropologica: nella società viennese di Schnitzler, dove l’uniformità borghese va eliminando le differenze di un tempo tra nobili e non nobili, la possibilità di far “scoppiare i doppi” – quello che Girard definirebbe il “doppio mimetico”, il rivale nascosto ovunque, per la donna come per l’uomo – genererà la violenza: la comunità avrà bisogno di un capro espiatorio, come accade nel momento dell’orgia. Tutte queste diverse anime mi hanno portato a pensare che la possibilità di esplicitare i doppi fosse un’opportunità per lo spettacolo.
Perché hai “incendiato” la scena?
La casa di Fridolin e Albertine, per come è descritta nel testo, è arredata con mobili vecchi. Ma un allestimento realistico sarebbe stato inopportuno; così, per suggerire la sensazione di qualcosa che non ha più senso e che ha bisogno di rinnovarsi, con lo scenografo Paolo Di Benedetto abbiamo pensato che la cosa migliore fosse prendere i mobili e… bruciarli!
Fuoco purificatore?
Direi minaccioso. Se purifica, lo fa distruggendo. È un fuoco che sbriciola il nucleo familiare, l’identità. È l’inconscio che stravolge, spazza via quello che rimaneva di vecchio e muta completamente i riferimenti.
L’incontro
Giovedì 2 dicembre, alle ore 17, nel Chiostro Nina Vinchi (via Rovello 2), Carmelo Rifici e Marco Castellari (Università degli Studi di Milano) approfondiscono i temi dello spettacolo.
L’ingresso è gratuito con prenotazione obbligatoria su www.piccoloteatro.org
Sono presenti scene di nudo integrale
Orari: da martedì a sabato, ore 19.30; domenica, ore 16. Lunedì, riposo.
[lunedì 6 dicembre, ore 19.30; martedì 7 e mercoledì 8 dicembre, riposo]
Durata: 185 minuti incluso un intervallo
Prezzi: platea 40 euro, balconata 32 euro
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