Da sempre attento a intercettare le realtà più interessanti del Subcontinente, per la sua 21ma edizione il River to River Florence Indian Film Festival, l’unico festival in Italia che racconta il volto contemporaneo dell’India attraverso la cinematografia e la cultura, in programma dal 3 all’8 dicembre al Cinema la Compagnia di Firenze e online, si apre alla moda. Nasce così l’incontro con I was a Sari, il marchio di accessori e abbigliamento ready to wear, distribuito da Oxfam Italia, che dona nuova vita agli abiti femminili tradizionali dismessi (le sari, appunto), trasformandoli in vestiti pregiati, gioielli, calzature e tessuti ornamentali realizzati a mano da artigiane degli slum dell’India. Etico, unico e sostenibile: un brand made in Mumbai che si schiera con le donne e con l’ambiente, promuovendo un concept di moda fatta di pezzi unici, con una storia da raccontare. Il progetto sarà presentato dal fondatore Stefano Funari con la giornalista italo-indiana Cristina Piotti in un talk dal titolo “La moda sostenibile a cavallo tra Italia e India“, sabato 4 dicembre alle ore 11.00 presso il cinema La Compagnia (via Cavour 50/R) e online sui canali YouTube e Facebook del festival.
Un progetto in costante crescita organica. Attualmente fornisce retribuzione e formazione professionale a più di 170 donne provenienti da situazioni svantaggiate. Le parole d’ordine sono economia circolare, con il recupero di tessuti dai caotici e colorati mercati della città, empowerment femminile, fornendo a donne in situazioni svantaggiate una formazione professionale e la tranquillità dell’emancipazione economica, design e originalità, con prodotti unici disegnati da fashion designer volontari da tutto il mondo, tra cui spicca la collaborazione con Gucci. La maison capitanata da Marco Bizzarri dal 2018 sostiene l’iniziativa su diversi fronti, ad esempio nell’ambito del programma di volontariato interno all’azienda Gucci Changemakers, che ha dato la possibilità alle artigiane di partecipare a un workshop presso l’ufficio creativo del brand a Roma, e ai propri designer di progettare una serie di oggetti firmati I was a Sari. Inoltre, grazie alla partnership con Gucci Equilibrium, piattaforma dedicata alle best practice sociali e ambientali, è stato finanziato una speciale formazione sulle tecniche tradizionali di ricamo per le artigiane, consentendo loro di realizzare una nuova linea luxury.
“Il nostro marchio nasce per un target di consumatori consapevoli – racconta Stefano Funari, che nel 2013 lo ha fondato in collaborazione con un team del Politecnico di Milano – e soprattutto dopo l’esperienza della pandemia siamo tutti siamo un po’ più coscienti dell’impatto dei nostri acquisti, sia i singoli che le grandi aziende. In questo senso associarsi a brand sostenibili diventa un fattore d’importanza primaria, oltre che un ottimo modello di corporate social responsibility, come dimostra il nostro lavoro con Gucci, Brembo e altri primari brand internazionali”. E continua: “I was a Sari è un progetto costruito su tre pilastri fondamentali: inclusione sociale, elemento che ci ha avvicinati a Oxfam Italia, che oggi è importatore e distributore dei nostri prodotti negli shop del Commercio Equosolidale, attenzione all’ambiente con una produzione proveniente al 90% da materiali di recupero, e fattore impresa. È importante infatti sottolineare che non siamo un ente benefico, ma un’azienda competitiva sul mercato. Altro dettaglio centrale è che questo non è un business condotto da occidentali in India, ma un progetto quasi al 100% indiano: lo staff è composto interamente da personale locale formato in ambito sociale, io sono l’unico straniero”.
Un modello di impresa solido. “Calcoliamo il nostro indice di sviluppo in base al numero delle artigiane coinvolte: a marzo 2020 erano 170, un anno e mezzo dopo abbiamo ampiamente superato quella cifra. Siamo già tornati sopra i valori pre-Covid, e programmiamo di raggiungere oltre 200 dipendenti nel 2022. Neanche in piena pandemia ci siamo fermati; abbiamo rallentato, questo è vero, ma mantenendo i volumi al livello degli anni precedenti”, dice Funari.
Riguardo alle modalità di selezione delle lavoratrici spiega: “Le donne che realizzano i modelli vengono da aree rurali, quasi sempre hanno figli e non possiedono skills di base. In questo senso I was a Sari si differenzia già in partenza da altri progetti, perché invece di fornire ulteriori opportunità a professioniste già capaci, ne crea di completamente nuove per chi non ha mai avuto alcuna formazione. Si parte con un percorso di training da 6 a 12 mesi, dopodiché si passa alla produzione prima di oggetti semplici, poi via via più complessi. La gran parte di queste donne, prima di collaborare con noi non ha mai lavorato né guadagnato, ma soprattutto non ha mai pensato di poter scegliere in modo autonomo, di poter esprimere un’opinione. Dunque anche una decisione minima, come la scelta del colore del filo da abbinare al tessuto, rappresenta un enorme step di emancipazione. Uno stipendio regolare e condizioni di lavoro flessibili danno loro la possibilità di pianificare un futuro stabile per le famiglie; inoltre ricevono assistenza economica e sanitaria e frequentano corsi di inglese e competenze di base: tutte cose che le rendono sempre più consapevoli del proprio valore”.
I was a Sari è proprietà di 2nd Innings Handicrafts, società con sede a Mumbai che reinveste nel progetto l’intero profitto. Nel 2019 il marchio si è aggiudicato il Circular Design Challenge Award, primo premio indiano dedicato alla moda sostenibile, e il Responsible Disruptive Award in occasione dei Green Carpet Fashion Awards a Milano, il prestigioso evento annuale che celebra la moda sostenibile. Tote bag, sciarpe e stole sono i prodotti più venduti, ma sono disponibili anche sandali, abiti, gioielli. I sari reinventati a Mumbai diventano capi indossati negli uffici di Milano, nei locali di Barcellona, nei retreat di Bali, con un carbon footprint ridotto al minimo che rappresenta un esempio virtuoso in un settore dall’enorme impatto ambientale.