In occasione del bicentenario di FëdorDostoevskij i Marcido Marcidorjs e Famosa Mimosa lasciano emergere l’interesse coltivato da tempo per lo scrittore russo nello spettacolo Memorie del Sottosuolo con la regia di Marco Isidori e attore protagonista Paolo Oricco, inseparabile da un imprescindibile sfondo-sipario realizzato da Daniela Dal Cin, “Il trionfo della morte”, ispirato a un affresco del quattrocento di Palazzo Abatellis a Palermo. Memorie del Sottosuolo è andato in scena al Teatro Elfo Puccini di Milano dal 14 al 19 dicembre.
Sembra aver attraversato un detritico e terroso sottosuolo Paolo Oricco, quasi un demone polveroso in giacca e camicia che si aggira dentro un magmatico e incandescente vulcano di ricordi (memorie), fitto di incontri con personaggi (immaginati o solo ricordati?) a cui si rivolge continuamente sentendosi deriso. Forse è solo a tu per tu con un delirio vertiginoso della coscienza, in pieno stile Dostoevskij. Coscienza è la parola più ricorrente all’interno del monologo – “aver coscienza di troppe cose ammala” – dice questo eccentrico personaggio che si dibatte tra esaltazione e disperazione, tra bene e male, tra desiderio di azione e tendenza all’accidia. Ossessionato da misfatti compiuti in passato, si ritrova all’età di 40 anni (40 anni di sottosuolo) a vivere perennemente nell’isolamento e nell’indecisione, con “la volontà di calarsi nello stato sociale di un pigro patentato” per dirla con le sue parole.
Cosa rappresenta il sottosuolo? Il vivere all’ombra, all’oscuro, rifugiato nel sottosuolo, perseguendo l’inattività, lontano dal vuoto sociale e da ideali in cui non si riconosce. Si sente un roditore che gira in tondo o un insetto. Ma allo stesso gode dell’essere marcio e bello. Impellente la volontà di sentirsi individuo e del trionfo di sé stesso, ragion per cui contrappone alla legge 2 x 2 = 4, il 2 x 2 = 5, una delle possibili conseguenze del primato individuale.
Il testo Memorie del Sottosuolo di Dostoevskij è denso e importante. Scritto nel 1864 è la crisalide di testi postumi dello scrittore russo come Delitto e Castigo e i Fratelli Karamazov. Racchiude una denuncia agli ideali diffusi nel XIX secolo con la corrente del positivismo basata su ragione e scienza a cui il protagonista contrappone un’esistenza tra sofferenza, godimento e autocelebrazione di sé medesimo, quasi guardando il mondo come se ne fosse fuori. Alienazione, confusione, accidia, ossessione, a volte invidia, si sprigionano dalle parole di un monologo incessante, senza pause e con ritmi da capogiro.
Il fulcro dello spettacolo è l’attore. Paolo Oricco incarna la metamorfosi, è maschera mutevole, evoluzione incalzante della voce, è spiriti multipli che si sprigionano da un passato storico quasi fantasmatico o solo inconscio-onirico. Oricco si palesa, si con-fonde con lo scenario creato da Dal Cin diventandone parte integrante, un’estensione del personaggio. Questo è un elemento cardine e centrale in tutti gli spettacoli dei Marcido.
La recitazione originale e costruita in maniera impeccabile unita alla scena di Dal Cin dà un taglio moderno al testo rivisitato di Dostoevskij, a volte eclissandolo come se fosse rinchiuso in un contenitore dove le parole sbattono sulle pareti, rimbalzano, senza trovare via d’uscita e diventando segno significante.
Resta l’ipnosi di fronte a un palco con luci policrome e l’effetto psichedelico di questo volto luminoso che si staglia davanti allo scheletro di una morte alata.
Lavinia Laura Morisco