drammaturgia di Sonia Antinori
dal saggio di Raffaele Alberto Ventura (minimum fax 2017)
con Giacomo Lilliù e Matteo Principi
regia di Giacomo Lilliù
video Giulia Coralli, Matteo Lorenzini, Piergiovanni Turco
sound design Aspect Ratio
scene Lodovio Gennaro
costumi Stefania Cempini
luci Angelo Cioci
Produzione MALTE & Collettivo ØNAR / Marche Teatro in collaborazione con AMAT / Comune di Pesaro / con il sostegno di MiC, Regione Marche / con il supporto di Loop Live Club / selezione Festival CrashTest 2020
Giacomo Lilliù e Matteo Principi sono i due rappresentanti di una classe disagiata, diffusa e difforme da ciò che ci si aspettava da lei. A ogni nuova generazione, una nuova speranza di rivoluzione che inevitabilmente fallisce e cade, rotolando verso un vuoto cosmico che abbiamo il coraggio di chiamare maturità, indipendenza, perfino libertà.
E così «ci troviamo a contemplare l’estensione del nostro fallimento». O forse l’estinzione, non del fallimento ma di tutta la classe disagiata, la nostra. Mia, degli attori in scena, di Raffaele Alberto Ventura, autore del testo da cui è tratta la drammaturgia di Sonia Antinori, e di tutta la compagnia di under 35 che ha messo in scena lo spettacolo. Ci estingueremo come il dodo, e verremo ricordati come esseri viventi dall’aspetto buffo e l’andamento incerto. «Troppo ricchi per rinunciare alle loro [leggi nostre] aspirazioni intellettuali e artistiche ma troppo poveri per poterle realizzare».
Ma allora è di generazione che si parla, non di classe. Eh no, perché alla fine siamo figli e figlie di una società che ci ha imposto di essere ricchi, ma no troppo. Di studiare, ma senza troppi sbocchi lavorativi. Di goderci la vita, ma non per sempre. Di avere un’identità ben indefinita da proteggere.
Il conflitto di classe è diventato interno alla classe, uno scontro economico ad armi pari e dunque ancora più feroce. In quanti, rappresentanti di questa classe disagiata, possiamo davvero permetterci di fare quello che vogliamo, come ci è stato promesso?
La messinscena disegna piccoli affreschi puntuali, spaccati di una generazione apparentemente felice e tragicamente ingenua. Il luogo del teatro, simbolo di un mondo intellettuale che fatica a definirsi tale, entra di diritto a far parte dello spettacolo e scardina fin dal principio il rischio di una profonda contraddizione: puntare il dito contro il privilegio dall’alto di una posizione privilegiata, autoassolversi in quanto parte lesa o, al contrario, denunciatrice.
Le scelte drammaturgiche e registiche (come già quelle letterarie del saggio) riescono a non cadere nella banalità e nell’ipocrisia, costruendo un’autorappresentazione reale senza sconti di sorta.
La Teoria della classe disagiata non ha ancora una definizione precisa, ma inizia a prendere coscienza di sé attraverso una serie di punti fermi e rappresentazioni in negativo. Cosa non siamo, cosa non ci possiamo permettere di fare e di volere. Che cosa dobbiamo davvero cercare in Flaubert e in Keynes, in Checov e in Veblen non per citarli durante l’aperitivo, ma per salvarci.
Una tragedia greca, rievocata nella sua etimologia da un’onomatopeica citazione animalesca. Chissà in quanti l’hanno colta, chissà alla fine cosa importa.
Un dramma borghese, questo sì, è importante ribadirlo. Non tanto per il dramma, ma per l’aggettivo che lo accompagna, che altrimenti risulterebbe fuori luogo. La borghesia: roba ottocentesca, da classe agiata. Si parli invece di classe media, ecco. In senso aritmetico più che economico, trasversale alla società e sovrabbondante nelle percentuali. In media, siamo tutti classe mediamente agiata, mediamente a metà tra i ricchi e i poveri, che hanno i loro buoni motivi per gioire o lamentarsi. E noi?
La finzione teatrale è ridotta al minimo e paradossalmente è affidata al pubblico, tutta concentrata nell’applauso finale agli attori (per altro meritatissimo), in quanto celebrazione di un rito antico che evidentemente ha insegnato poco all’umanità. Uno specchio che riflette senza dialogare, senza mostrare la pericolosità dei movimenti che si compiono al di qua del vetro. O forse, semplicemente, uno specchio che deve trovare forme sempre nuove per riflettere con precisione la gestualità dei nuovi corpi (sociali), il disagio rinnovato di una classe, il nuovo fallimento all’orizzonte.
Teoria della classe disagiata questa forma l’ha trovata, e non in un manuale universitario.