Una raccolta di racconti, questa di Gian Pietro Bertoli, o meglio un libro suddiviso in tanti racconti, quasi altrettanti capitoli (e ricapitolazioni) della memoria, ma con la caratteristica di libro unitario, con una precisa identità; l’unitarietà è conferita non solo dal nitore dello stile, ma anche dalla presenza di una serie di personaggi, i “ragazzi del ghèt”, cioè del ghetto, la parte vecchia della città, come ci informa nel glossarietto preposto al testo lo stesso Bertoli, personaggi che ritornano in vari episodi. Una banda di ragazzini, che nient’altro sono che i compagni dell’autore da giovane, di Pietro, che non si serve di un nome dietro cui nascondersi, di una maschera (‘datemi un maschera e vi dirò tutto’, come è nello statuto della letteratura); ma preferisce usare il proprio nome. E che comunque non è un io narrante, ma un personaggio come gli altri, di cui si parla in terza persona. Alcuni dei ragazzini acquisiscono un nomignolo, che è più individuante del nome.
Dice bene il prefatore Enzo Concardi: «Pietro è il ragazzo in età scolare, protagonista della prima parte di tali narrazioni, che assume un carattere di letteratura realista, mentre la seconda parte sfuma gradualmente tale identità per sfociare in dimensioni oniriche, con personaggi fiabeschi». In effetti a una prima parte di stampo realistico ne succede un’altra, che sterza in dimensione onirica e simbolica. La prefazione dà anche conto in maniera completa della struttura del libro e delle tematiche in esso affrontate e svolte. Perciò saranno sufficienti alcune osservazioni a margine, relative soprattutto al primo racconto e all’ultimo; collocati come sono sulle soglie, essi acquistano importanza decisiva, come sanno i cultori si semiologia.
Il primo racconto, Una notte sul monte, si apre con uno squarcio di carattere storico-geografico. Si pratica in quegli anni il traforo delle montagne, sulle Alpi. “In uno di questi operosi cantieri lavoravano dei giovani con il compito di tener pulito” il luogo di lavoro. Quel giorno però improvvisamente era apparsa la neve, come una meravigliosa, inattesa epifania. È questo uno dei pregi della scrittura di Bertoli, riuscire a rendere la magia degli spettacoli naturali, in virtù di un’estrema attenzione al sensibile, che presiede alla nettezza delle linee nella descrizione di paesaggi. Uno spettacolo troppo invitante per i lavoranti, che “soggiacquero al richiamo dell’età e al fascino dell’evento”. Ed ecco la descrizione che fornisce il setting del racconto vero e proprio, nel momento in cui la fase descrittiva cede il passo all’azione: “Questa magica atmosfera rapì i ragazzi […]. “La realtà sprofondò dentro la cortina grigia della nebbia”; qui non si può non pensare alla Nebbia di Pascoli, che nasconde il reale. Incomincia il gioco: “fabbricavano delle bianche palle che tiravano gli uni sugli altri”, in un “carnevale bianco”: un’altra caratteristica dello stile del Nostro, il metamorfismo, l’utilizzo della metafora (e non si può sottacere la predilezione per lo stile nominale; l’uso dei tempi quasi sempre all’imperfetto, il tempo della nostalgia; il colorismo, però affidato anche alla sostantivazione; la dislocazione sintattica). Tutti presi dal gioco, i giovani non sentono neppure la cornetta che annuncia lo scoppio delle mine. E qui abbiamo un’altra apparizione quasi magica, in un primo piano che sostituisce il piano lungo del gioco: “Uscì una gran nube bianca ed in mezzo a questa si materializzò il capo del cantiere”, un “omaccio”. Il quale manda un urlo, rivolto ad Angelo, uno dei giovani che non hanno terminato il lavoro: non ha pulito le “benne” (l’autore si serve spesso del lessico specialistico), che son piene di neve; rimarrà fino alla fine a costo di passarci la notte. Resta solo Angelo, che viene definito “povero ragazzo” (l’aggettivazione è un metodo usato dallo scrittore per introdurre il suo punto di vista; è il suo occhio giudicante che si introduce nel vivo della narrazione).
Ora quindi il narratore si sofferma sull’avventura di Angelo, costretto a ultimare il lavoro giornaliero. Terminato il lavoro, Angelo non trova, nella notte, in quel bianco polverio, la via di casa; si spaventa fino a dover ritornare indietro, alla galleria, l’unica cosa visibile “nell’indistinto mondo bianco”. La memoria del lettore qui corre a una novella di Pirandello, Ciaula scopre la luna. Ora Angelo si inoltra nel buio della caverna; poi si raggomitola, annichilito dalla paura. “Allora si sentì sfiorare il capo da una carezza e una voce confortante che pareva quella di sua madre, dirgli: «Coraggio, la notte passerà»”. Qui l’impianto naturalistico della narrazione si interrompe per l’irrompere del misterioso, del metafisico, preannunciando quello che sarà l’aspetto prevalente nella seconda parte del libro. Alla fine il soprastante, facendo la voce grossa, ma questa volta solo per nascondere il senso di colpa (fine notazione psicologica), parte alla ricerca dello scomparso, che, pure lui improvvisamente, magicamente starei per dire, “come un redivivo, sbucò”. Dunque si può parlare di una propensione al magismo, una vena introdotta nella narrazione dallo scrivente con la freschezza delle credenze ingenue e dei racconti popolari di fatti misteriosi, già nelle prime pagine, e si traduce nell’apparizione di elfi, creature angeliche e visioni di cui parla il prefatore.
Anche nei racconti della seconda parte si notano descrizioni affettuose di luoghi noti e una conoscenza puntuale della nomenclatura botanica. Nonché l’uso di dialettismi, di parole tipiche della lingua piemontese, solitamente conservate anche per indicare istituti, usanze, tecniche costruttive, fabbricati sconosciuti alle altre parti d’Italia. Ma tornando alle ultime pagine del libro, è qui che si infittiscono le aperture sul mistero. Basti pensare a quella mano misteriosa e “provvidenziale” che aiuta “un giovane” in una simbolica salita, un’ascesa che presenta tratti di difficoltà iperbolica, tra “lastroni di granito che perforavano il cielo”. E anche qui ricompaiono elementi naturali, in una descrizione paesistica affettuosa, carezzevole direi, di elementi amati e a tratti personificati; quasi il fondamento esistenziale di Bertoli, questo paesaggio abbellito dalla nostalgia, che si può ben definire a giusto titolo “paysage d’âme”.
Fabio Dainotti