Un thriller
dai dialoghi raffinati, che nella struttura drammaturgica si sviluppa come una partita a scacchi, in cui ogni mossa sembra quella decisiva e tuttavia nulla è definito fino all’imprevedibile conclusione.
Il celebre e aristocratico autore di romanzi gialli Andrew Wike invita nella sua villa in campagna Milo Tindle (Tindolini), giovane parrucchiere di origini italiane amante di sua moglie, che sollecita il divorzio. Tra i due si innesca un gioco sottile di dialettica forbita da parte di Andrew “I romanzi gialli sono la ricreazione delle menti nobili” come ama ripetere con sufficienza, ribattuta con prosaico pragmatismo da Milo che tenta di ridicolizzare il rivale esaltando la propria giovinezza e prestanza fisica, qualità molto apprezzate dalla donna contesa: “Nessuno mi ama per il mio cervello”.
Non essendo il parrucchiere in grado di garantire alla signora un tenore di vita adeguato a quello che le viene consentito dall’aristocratico marito, lo scrittore gli propone un patto allettante: rubare i gioielli dalla cassaforte e rivenderli assicurandosi una cospicua rendita, mentre egli avrebbe incassato il rimborso dell’assicurazione.
Tutti felici e contenti? Non esattamente.
Egocentrico e snob, Andrew probabilmente non è davvero disposto a permettere alla coppia un futuro agiato: “La cultura non è il loro forte” sostiene riferendosi con spregio agli italiani.
Tindle accetta l’accordo, si traveste come gli viene suggerito e inizia un tourbillon di colpi di scena con cadaveri che spariscono, il perspicace ispettore Doppler (il cognome è significativo) che coglie tutti gli indizi, vari capovolgimento di ruoli, mentre vengono evocate le donne, amanti di ciascuno, che non entrano mai in scena.
La trama ambigua e perfida si stringe sempre più intorno alle certezze dei due protagonisti che man mano vedono mutare le prospettive e i punti di forza, rimanendo uno invischiato nella rete lanciata dall’altro. Raffinatezza, arroganza, vendetta versus sfrontatezza, cinismo, arrivismo dipingono una realtà in continuo mutamento.
Inquietante, ironica, brillante, la pièce si sviluppa intorno ai dialoghi incalzanti e agli effetti claustrofobici di una casa ipertecnologica con robot che ridono per le battute bizzarre, avvolta da sinistre luci che virano dal rosso al verde, sviluppando un duello arguto e incessante, divertente e imprevedibile di inganni e verità occulte, assecondando gli oscuri meandri della mente umana.
L’opera teatrale del drammaturgo britannico Anthony Shaffer ha debuttato a Brighton nel 1970 con enorme successo, ottenendo nel 1971 il prestigioso “Tony Award” per la “migliore commedia dell’anno”. Il gioco perverso del thriller psicologico è stato portato al cinema nel 1972 da Joseph L. Mankiewikz, interpretato da Laurence Olivier e Michael Caine e nel 2007 col film diretto da Kenneth Branagh, interpretato da Michael Cane e Jude Law e con la sceneggiatura del premio Nobel Harold Pinter.
Giuseppe Pambieri e Paolo Romano sono irresistibili nel ruolo rispettivamente del marito e dell’amante. La regia di Raffaele Castria è ben supportata dalle scene di Fabiana di Marco e dal disegno luci di Marco Catalucci che delineano un’ambientazione tenebrosa. Musiche di Alessandro Molinari e costumi di Susanna Proietti.
“Sleuth – spiega il regista Raffaele Castria – è un duello arguto, perverso, ipnotico, selvaggio e assolutamente divertente che inchioda lo spettatore alla poltrona col fiato sospeso. Senza respiro, senza pause, è un capolavoro del brivido a teatro. Un gioco al massacro in cui lo spettatore rimane intrappolato insieme ai protagonisti. La suspense si fa puro divertimento spingendo dall’angoscia alla risata in un sospiro”.