Annunciata, molto attesa, rimandata per ben due volte, nel 2020 e nel 2021, la Turandot di Puccini secondo Ai Weiwei in scena al Teatro dell’Opera di Roma porta inevitabilmente su di sé impressi i segni della pandemia e della più stretta attualità, guerra fra Russia e Ucraina inclusa.
Ancora poche repliche, quasi tutte sold out, per ammirare questa Turandot pucciniana che viene proposta nella sua forma incompiuta e forse più moderna musicalmente senza il finale di Alfano e che si conclude con la toccante morte e il sacrificio di Liù, fulcro di questa lettura contraddistinta dalla presenza del celebre artista cinese. Altrettanto importante, la presenza dell’ucraina Oksana Lyniv, prima donna sul podio al Festival di Bayreuth, che indossa una fascia in vita con i colori della bandiera della sua terra calorosamente accolta dal pubblico a sostegno dell’Ucraina invasa.
Ma che dire di questa Turandot? Appare una vera e propria creatura di Ai Weiwei, un’opera non solo musicale, ma decisamente artistica. La maggiore cifra stilistica è data dall’immaginario di Ai Weiwei che invade ogni elemento, regia, scene, costumi, ma si dipana soprattutto attraverso i video.
“Questa Turandot sarà il mio punto di vista. La lirica immersa nella contemporaneità, le lotte culturali e politiche del presente rappresentate attraverso la storia di Puccini”.
Parole di Ai Weiwei che offrono un’interpretazione alla sua personalissima visione dell’opera che non può, per sua stessa dichiarazione, non tenere conto di quanto è accaduto nel corso di questi due anni nel mondo. Forse anche troppo.
Le scene riecheggiano in qualche modo la Cina, se non esattamente da favola orientale, e si articolano attraverso uno spazio articolato in scalinate e una serie di torrette elevate arrivando a ospitare una mappa geografica. Se l’azione dell’opera si svolge, con una regia tutto sommato piuttosto statica e senza troppa inventiva, contemporaneamente va in scena una seconda opera che viene proiettata sullo schermo. I video, costanti e onnipresenti, creano una mappa internazionale mondiale: offrono un susseguirsi incalzante di immagini d’archivio che attingono dalle scene della pandemia di covid, mostrano sanitari e ospedali, pazienti e ambulanze, si articolano in filmati d’archivio e sanguinose repressioni, anche in Cina, rendendo simile la tirannia di Turandot alla dittatura moderna, mostrano disegni che riproducono l’orrore della guerra. Insomma, una narrazione contemporanea su una narrazione d’opera che crea un certo stridente distacco e distrae non poco lo spettatore da quanto accade sulla scena e da quanto si ascolta. Operazione senza dubbio personalissima dell’artista per la sua prima e unica regia d’opera, ma che sembra quasi riservare minore attenzione di quanto necessario a questa pucciniana Turandot.
Sembra che all’artista non interessi troppo la storia e l’opera di per sé quanto la possibilità che gli viene offerta di accostare la tirannia della favola alla tirannia del presente cogliendo ogni elemento di attualità ove possibile. E se la tirannia di Turandot non differisce molto da quella attuale, Calaf e Timur sono dei rifugiati politici, dei profughi esotici, il principe con tanto di zaino-simil rana in spalla a indicare la sua condizione. “Voglio mettere in contatto la nostra vita di oggi con quella di cent’anni fa, all’epoca in cui Puccini si confrontò con la fiaba cinese – conferma Ai Weiwei – Il mondo è come un’opera lirica. Turandot, quest’algida principessa immaginaria e reale, significa forza e potere; il principe Calaf, suo pretendente, diventa rifugiato politico”.
Non mancano gli applausi alla direttrice ucraina Oksana Lyniv che porta a teatro il dramma della guerra e punta a una interpretazione di carattere contemporaneo di una partitura ricca di colore, ma forse dai volumi troppo alti per l’orchestra che soprattutto all’inizio ha sovrastato le voci dei cantanti. La Turandot dell’ucraina Oksana Dyka è inflessibile, ma al tempo stesso sensibile ove occorra, Michael Fabian, tenore statunitense al debutto romano e nel ruolo ben si misura come principe Calaf. Applausi per la bravissima Francesca Dotto, toccante Liù. Ben calati nella parte Antonio Di Matteo nel ruolo di Timur e Alessio Verna, Enrico Iviglia, Pietro Picone rispettivamente nei ruoli di Ping, Pang, Pong. Bene il coro diretto da Roberto Gabbiani. Ultime repliche mercoledì 31 e giovedì 31 ore 20 mentre fino al 3 aprile è possibile ammirare La Commedia Umana di Ai Weiwei ospitata alle Terme di Diocleziano dal Museo Nazionale Romano.
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