Andato in scena al TeatroBasilica di Roma
La radicata e sensibile umanità di Erri De Luca trasuda da ogni frase di quel racconto breve in cui la giovane palestinese Miriàm narra la sua straordinaria vicenda di donna scelta per compiere una missione, umana sì, ma totalmente straordinaria.
“Qui c’è la storia di una ragazza operaia della divinità che travolge ogni costume e legge” scrive De Luca.
Gianluca Barbadori lo mette in scena nello spazio della cripta della Scala Santa con gli archi a tutto sesto ricoperti da mattoni a vista che evocano certe ambientazioni neoclassiche o rinascimentali nell’iconografia pittorica dell’Annunciazione.
Galatea Ranzi attende al centro della scena l’ingresso del pubblico, assorta nel mistero, con la postura e la bellezza pudica dell’Annunciata di Antonello da Messina (costume di Lia Francesca Morandini).
È Miriàm, una ragazza della Galilea cui una misteriosa presenza annuncia che avrà un figlio destinato a un futuro prodigioso, subito dopo si accorge di essere incinta. Coraggiosamente, ne mette al corrente il futuro sposo Iosef che crede alla sua versione ma le consiglia di simulare una violenza per evitare di essere sottoposta alla Legge (il Talmud e le norme dell’impero romano) che avrebbero imposto la lapidazione per adulterio. La ragazza rifiuta, orgogliosa del suo ruolo e Iosef è innamorato, quindi decide che le nozze si svolgeranno come previsto dopo i lavori estivi, sfidando le malelingue che non daranno più lavoro a lui e sputeranno per terra al passaggio di lei: “Dove prendi la forza di stare da solo contro tutti, Iosef?”. “Da te” risponde lui. Iosef crede nella grazia, che è la forza sovrumana di affrontare il mondo da soli senza sforzo. È un dono e la sua sposa lo ha avuto.
Miriàm vive le gioie della maternità e inizia un dialogo emotivo col suo bambino dal quale non esclude Iosef, benché egli decida di non violarne l’intimità per lasciarle assaporare con intensità quell’esperienza tutta sua. Sarà padre dopo, quando il bambino nascerà e avrà bisogno del suo sostegno. Miriàm è estremamente grata allo sposo perché ha fatto prevalere l’amore alla Legge, salvando dalla morte lei e suo figlio.
L’autore scava nel tessuto emotivo della giovane di Nazareth che vuole vivere la sua avventura di madre, il più terreno degli accadimenti nella vita di una donna: “Ero felice. Essere piena, crescere come la luna, contare le settimane come per il travaso del vino, non avere il ciclo, tutto era una purezza che mi ubriacava di gioia”. Penetra anche nell’animo di un promesso sposo incrollabilmente innamorato: “Nessuno ha torto, Miriàm. È una faccenda che ha bisogno di amore a prima vista, mentre loro si ingarbugliano sui codici, le usanze. Per loro tu sei pietra d’inciampo, per me sei la pietra angolare da cui inizia la casa”.
Il censimento costringe la coppia a recarsi in Giudea, luogo d’origine della tribù di Iosef. Miriàm tranquillizza l’ansiosa madre e si mette in viaggio a dorso dell’asina, contenta che il figlio nasca lontano da quelle malelingue. A Betlemme trovano posto in una stalla dove la giovane partorisce riscaldata dall’asina e da un bue. Vuole stare sola, assaporare fino in fondo il mistero di quella nascita che è tutto suo, la placenta sulla paglia, il bambino stretto al cuore: “Qui dentro siamo solo noi, un calore di bestie ci avvolge e noi siamo al riparo dal mondo fino all’alba. Poi entreranno e tu non sarai più mio. Ma finché dura la notte, finché la luce di una stella vagante è a picco su di noi, noi siamo i soli al mondo”.
Lo chiama Ieshu come un angelo ha suggerito in sogno a Iosef, ma viene a patti con Dio a cui non lo consegnerà prima dei trent’anni: “Non dico sia così, dico non sia prima di così. Ti ho promesso, promettimi. Ti ho obbedito, esaudiscimi”.
Una supplica che è quasi un’invettiva. La voce è un soffio, umanamente disperata, come sarà, un giorno, sotto la croce.