In scena al Teatro Lo Spazio di Roma fino al 16 aprile 2022
Una morte precoce e crudele stroncò una delle voci più innovative del panorama teatrale italiano degli anni Ottanta. Ma Annibale Ruccello è riuscito a incidere nella drammaturgia napoletana con un talento supportato dallo studio dell’antropologia e della lingua napoletana tanto che, dalla sua scomparsa nel 1986 la sua produzione non ha conosciuto oblio, vivificata da una costante azione di valorizzazione da parte di attori, registi, studiosi e spettatori.
A 24 anni, nel 1980, esordì con Le cinque rose di Jennifer scritta in italiano e in napoletano, di cui fu anche protagonista.
Jennifer è un travestito degli anni ’70 che vive in un lezioso monolocale cosparso di petali di rose, candele accese e cinque rose rosse in un vaso. Indossando un attillato vestito di lamé attende la telefonata di Franco, ingegnere genovese che ha promesso di sposarla, che non vede da tre mesi e al quale dedica compulsivamente su una emittente locale la canzone Se perdo te di Patty Pravo.
Tra cambi d’abito e di parrucca il telefono squilla incessantemente ma la speranza che sia Franco viene sistematicamente delusa. Si tratta di fastidiose interferenze perché la rete telefonica del quartiere è andata in tilt e sul suo numero vengono convogliate tutte le chiamate della zona. Con gli sconosciuti interlocutori Jennifer confessa desideri e speranze, racconta aneddoti e progetti. Chiamano uomini che cercano altre donne e perfino uno scocciatore abituale che la deride. Franco no.
Alle telefonate si alternano le canzoni di Mina, Patty Pravo, Milva, Ornella Vanoni e le notizie radiofoniche di omicidi di travestiti su cui il serial killer lascia cinque rose rosse.
Nel corso di un blackout un’ombra furtiva si insinua in casa. È Anna, un lugubre travestito della zona che attende una telefonata di risposta a un annuncio e apre il suo cuore raccontando come è diventata testimone di Geova e quanto amore nutre per la sua gatta Rosinella.
Il telefono squilla, ma adesso Jennifer liquida sbrigativamente l’interlocutore, forse era quello che cercava Anna che, delusa, se ne va. Dopo altre telefonate sbagliate irrompe Anna disperata perché hanno ucciso Rosinella, minacciando di suicidarsi con un coltello.
Ne segue una colluttazione, in cui si scontrano il desiderio di vita alimentato dalla speranza dell’amore e il desiderio di morte scaturito dalla disillusione. Mentre il telefono continua a squillare e le canzoni si diffondono nell’aria si compirà il tragico destino suggerito dalle cinque rose nel vaso.
L’acuta sensibilità per i fenomeni sociali e le dinamiche emotive coniugata agli studi antropologici e linguistici consentono a Ruccello di generare una fucina di passioni, sentimenti e provocazioni che penetrano negli anfratti della mente e del cuore dove la dualità verità/menzogna si appanna perché il cuore ha bisogno di essere consolato e la mente gli fornisce gli alibi.
Il ritmo e l’intensità di scrittura proiettano lo spettatore al centro della scena, a condividere con i protagonisti drammi e malesseri che si intrecciano alla musica, nell’attesa spasmodica di qualcosa che spezzi la tensione.
Leandro Amato si impadronisce dell’essenza di Jennifer restituendola con una immedesimazione assoluta nella disperazione sconsolata e nella rabbia improvvisa, con passaggi di registro che virano dalla dolcezza del ricordo al grottesco dei preparativi. La presenza di Anna, che Fabio Pasquini caratterizza come una sorta di dark lady, squarcia il delirio di Jennifer che sprofonda nel baratro della solitudine smascherata.
Scene e costumi di Carlo De Marino, voci della radio di Gioia De Marchis Giannini e Enzo Avolio, luci di Zothause, regia di Agostino Marfella.
Dalle note di regia: “Ritengo che Le cinque rose di Jennifer, testo cult di Annibale Ruccello (1980), con il tempo e le diverse edizioni, abbia acquisito uno spessore stilistico che gli ha conferito il valore di un piccolo classico del teatro contemporaneo. Nel mettere in scena lo spettacolo ho sottolineato la ritualità del testo con atmosfere antinaturalistiche, ispirandomi, oltre a Genet, alla tradizione nordica dei Kammerspiel, (principalmente a Strindberg e ad Ibsen nella scena finale)”.