Il Museo Pasolini non esiste ma c’è. È un luogo non luogo costruito da Ascanio Celestini ovunque e da nessuna parte, per conservare la memoria del poeta. Dentro ci sono gli oggetti che ne raccontano la storia, in ordine rigorosamente cronologico. Fatti e oggetti: cose che si vedono, che si toccano, che ci sono per davvero. La sua prima poesia, una borsa nera in similpelle, il suo corpo massacrato all’idroscalo di Ostia.
Perché con Pasolini c’è sempre questo fastidioso inconveniente che tutti ne parlano ma nessuno l’ha letto. E c’è questa doppia fatica di dover leggere, insieme alle sue parole, anche tutto il secolo che le contiene, tutto quello che accadeva intorno a lui e che lui osservava, analizzava, assorbiva. Altrimenti non si capisce poi molto.
Il custode del Museo Pasolini incontra il poeta al Quadraro, una periferia di Roma «dove la città finisce e ricomincia», dove entrambi sono di casa e fuori luogo, borghesi immersi nel proletariato. È lì che si parla la lingua di Pasolini, che poi assomiglia molto a quella di Celestini: una lingua di strada, che non si declina ma si flette per l’uso – è un piegarsi tutto diverso – e poi di nuovo si ridistende un po’ per salire sulla pagina o sul palco, per essere compresa da chiunque.
Il custode non parla solo al pubblico, ma anche ad Alberto, un imprenditore che ha un cognome preciso, mai pronunciato, ma forse potrebbe averne anche tanti altri; uno di quei signori che ha sempre una bottiglia da stappare in casa, e di quelle buone. Parlano molto più loro che Pasolini, in questa visita guidata che inizia nel 1922, anno di nascita del poeta e 1° anno dell’era fascista, e finisce nel 1975, senza una vera conclusione. Cinquantatré anni della vita di un uomo, di un poeta, e di un paese; dal fascismo allo stragismo, senza soluzione di continuità, sullo sfondo di una periferia dove sembra cambiare solo l’architettura.
Quando si costruisce un museo bisogna dare un ordine agli oggetti, creare un percorso. Ma non basta: bisogna anche decidere come descriverli, quegli oggetti, che cosa dire e che cosa tacere. Celestini riesce a dire pressoché tutto: in Museo Pasolini c’è la storia del poeta e la Storia d’Italia, che si incrociano come piante d’edera al punto di non potersi più districare. C’è l’opera di Pasolini, scritta, pronunciata, girata, ma sempre poesia, a ben guardare: la poesia che si eleva, non per boria ma per allargare lo sguardo, e la poesia nel senso etimologico, di ciò che si fa, creando o costruendo qualcosa che non c’era. Dunque la parola e il pensiero di Pasolini, prima ancora dell’uomo Pasolini. Ma c’è anche il pensiero di Celestini, una scelta quasi inevitabile di prendere parte e posizione, di dire la propria, pur non intaccando mai la realtà storica. Quello che non c’è, in Museo Pasolini, è la celebrazione, il giudizio, la condanna o l’assoluzione, il tentativo – quasi sempre riuscito – di parlare del poeta per non far parlare il poeta.
Nel teatro artigianale di Celestini ogni spettacolo è un pezzo unico, come quelle ceramiche con lo stesso motivo decorativo ma con un tratto ogni volta diverso. La firma, però, è sempre la stessa, e si mette alla fine. Museo Pasolini finisce con la morte del poeta e con una frase del narratore, che è più o meno questa: «Pasolini muore il 2 novembre 1975, 53° anno dell’era fascista».