Forse unica nel panorama letterario contemporaneo, la poetessa di origini sarde Marisa Cossu – vivente a Taranto – indica al lettore, in calce a una gran parte delle sue liriche di questa silloge, la forma metrica delle stesse: così veniamo a conoscenza del sonetto continuo, rinterzato, caudato, elisabettiano, marotique, speculare; del rondò; del madrigale; della canzone breve; dello strambotto; dell’acrostico; del distico elegiaco o dell’asclepiadeo quarto o della strofe saffica, come dei più comuni senari e novenari ed anche delle terzine incatenate. Tale scelta – che definirei coraggiosa nell’attuale, indefinito marasma estetico e filologico – può essere uno stimolo per il lettore medio italiano all’acculturamento classico di tale materia o, quanto meno, suscitare una curiosità intellettuale non usuale. Nella prefazione Nazario Pardini sottolinea ampiamente questa originale caratteristica del modo di far poesia e specifica: “… La Cossu è alla continua ricerca di verbi e strutture ritmiche di raro valore sintagmatico. … Il complesso gioco morfosintattico (è) a disposizione per concretizzare le varie fasi del dettato poetico…”.
Oltre questo abito elegante, proveniente dalla tradizione letteraria e da un approccio culturale alla poetica, l’autrice svela visioni, concezioni, motivi, temi, di altrettanto valore che la collocano nei livelli più alti della poesia contemporanea, nutrita da una solida formazione classica e da un moderno approccio alla realtà del nostro mondo, nelle sue dimensioni interiori, psicologiche, morali, sociali, spirituali. Dunque coesistono in lei ventagli emotivi legati alle sfere sentimentali, agli affetti domestici e familiari, all’amore vissuto e sognato; suggestioni memoriali di volti, figure, luoghi dell’età più bella quando l’avvenire non ancora definito lasciava intravedere mondi luminosi; estasi, contemplazioni, osservazioni condivise tra la natura e la propria anima assetata di bellezza; un continuo ricercare l’infinito e gli infiniti oltre il grande mistero che ci circonda e che ci incammina verso il divino. Il libro è suddiviso in tre parti: Sentire il tempo (I), Stanze segrete (II); Amo divinamente (III), ma si tratta di una suddivisione formale, poiché l’unità artistica insita nell’ispirazione della poetessa le unisce in un unico grande viaggio nell’umana avventura alla ricerca dei suoi significati, tra i messaggi degli elementi naturali sui quali ella innesta la sua fantasia simboleggiante, le indirizza nel grande alveo dell’interiorità e dell’anima sulla spinta di infiniti stimoli venienti da una personalità umana ed artistica poliedrica.
Il mito antico è ancora operativo nella poetica di Marisa Cossu, in particolare l’eredità ellenica e il retaggio della Magna Grecia. Andiamo dunque sulle coste joniche, alla ricerca dell’antica Taras, dove sorge l’odierna Taranto, sito che tuttavia richiama la cruda realtà dell’oggi: “Taras, città d’acciaio, / ti spaura la notte che ti affoga / in polverose nubi…”, prima di proiettare la poetessa nella memoria storica degli splendori del passato: “…ho ricordi di colonne ammantate / da un’antica bellezza, / ti custodisco come una reliquia. / Forse ti amo per i tuoi sepolti ipogei, / per le ormai dissacrate necropoli, / i cunicoli scuri che vanno / al mare dalle antiche / segrete dei palazzi / del borgo medievale…”. Qui la capacità di sintesi attraverso immagini evocative epocali dipingono scenari incantevoli. Taras è richiamata anche nella poesia Cimiteri, dove si ripete il contrasto tra la nociva Taranto degli altiforni e la sognante antica città della civiltà greca. Nel mar Tirreno giace la perla Aethalia: “Il mito è ancora qui / sui ciottoli screziati delle Ghiaie / tra l’acque del sommerso porto Argivo…”. È All’Elba dedicato il dolce canto, la propizia onda tra cui guizzano i delfini, e lieve soffia il Maestrale. La ricostruzione delle atmosfere dell’isola toscana è catturante, forse perché “prescelta dalla Dea”. Figure femminili, donne del destino si affacciano nel canto della poetessa, come Andromaca, moglie di Ettore, Principessa di Tebe Ipoplacia e “dolce sposa presaga del lutto”; Saffo, l’eterna cultrice dell’amore pagano; Castalia, ninfa amadriade ed amica delle poesia: “Beva il poeta alla fonte Castalia / l’acqua mutata in fresca poesia /…/ Non poté averti Apollo, di te preso: / versa l’amore nel tuo scroscio eterno”. Ed anche nella misterica Senza tempo, dove s’intrecciano grovigli di luoghi (il fiume Galeso tanto amato) e memorie, appare il grande poeta Omero, anche se non chiamato per nome: “…E il mito era già lì, / con me veniva tra voci di vento, / in un libro consunto / …”.
Dal mito alla classicità di Dante continua il filo diretto del colloquio con i grandi del passato. Nella bellissima lirica Attesa, nell’epilogo troviamo l’ascesa spirituale all’Empireo: “…Appare all’improvviso il mio ristoro, / quell’amore che solo / giustifica la vita: / solo alla fine lieve spicca il volo / il cigno che nel fango s’è smarrito / ed è Bellezza, adesso, che intravedo. / Si svela tra le tremule fiammelle / «l’amor che muove il sole e l’altre stelle»”. Tocchi di alta liricità teleologica ed escatolgica, così come nella composizione Il sorriso, dove il riferimento dantesco è il verso “Ella ridea da l’altra riva dritta” (Divina Commedia, Purgatorio, Canto XXVIII) e il cui significato è spiegato nei due versi terminali della terza quartina: “…il riso è segno del soffio divino / e il Poeta ne scrive nel suo Canto…”.
Ora, per concludere questa nostra recensione, accenniamo agli altri motivi che arricchiscono il dettato poetico della Cossu, inerenti soprattutto al rapporto tra l’io e il mondo. Allora ecco le rapsodie sulla natura (Vento marino, L’autunno, La tempesta…) in cui sprigionano le loro suggestioni le fantasie del mare, le simbologie autunnali sulle stasi dell’esistenza, le rappresentazioni della tempesta – con un riferimento alla famosa tela del Giorgione – quali metafore delle intemperie della vita e della storia. Ecco ancora gli spunti esistenziali sul senso di solitudine, sulle vuote sere dei nostri giorni, dove mi pare persino di intravedere echi di romanticismo (Pensieri al plenilunio di Primavera); l’enigmatica Le ceneri dell’io, probabilmente una sorta di elegia all’odierna crisi dell’essere, dell’identità, al dissolvimento delle realtà spirituali; l’autointerrogarsi sulle classiche domande esistenziali (Da dove vengo); l’incattivirsi dei tempi testimoniato dalla deriva delle nuove Generazioni; il persistere di una Condizione umana effimera in balia del panta rei: “…la tirannia del Tempo ci misura, / della pochezza umana non si cura”.
Il mistero che ci circonda ci incammina a ricercare soluzioni all’enigma della vita, che la poetessa, in ultima analisi, trova accedendo alla dimensione religiosa, dapprima in senso lato, via via verso il Cristianesimo. Così in Ecco il mio cielo è il senso dell’infinito, la consapevolezza d’essere una “minima particola d’eterno” che l’affascina, così come in Speranza c’è l’aspirazione ancora vaga ad una resurrezione come approdo del viaggio terreno. Oltre, l’aggancio alla figura del Cristo sancisce il suo ingresso definitivo nel divino, nel sacro: “…allora mi colpì tanta dolcezza / perché ti vidi Figlio del Creatore / …” (Allora mi colpì tanta dolcezza); “Vive nel cuore un luogo, dove quieta / veglia un’antica stella nell’attesa / quel dio-dentro che con voce lieta / nella vicenda umana si palesa / …” (Questo Natale). È dunque il riconoscimento dell’Incarnazione come presupposto della salvezza. E anche l’amore umano quindi assume tutt’altro significato: Amo divinamente titola la poetessa la terza sezione del libro, la cui copertina è occupata dal dipinto su tela, La ragazza sul fiume, di Sauro Pardini, fratello del prefatore, che potrebbe rappresentare la giovinezza sognante della poetessa.