Lei, il Dealer, il venditore, aspetta in abito da scena sullo sfondo di un teatro vuoto, quasi disabitato. Davanti a lei solo un drappo rosso e due grandi fari accesi illuminati da Pasquale Mari. Si capisce palesemente che sta aspettando qualcosa o qualcuno. E lui, il Cliente, si materializza direttamente da una piccola entrata laterale della platea del teatro, accedendo sul palcoscenico. Comincia così Nella solitudine dei campi di cotone, serrato dialogo a due, capolavoro di Bernard-Marie Koltès, testo del 1986 già portato in scena dal compianto Patrice Chéreau, ora al Teatro India di Roma fino al 29 maggio ripensato da Andrea De Rosa.
Il regista in realtà pone il dealer già in scena nel momento in cui il pubblico comincia a entrare in sala e si accorge di lei a poco a poco. Lei avanza orgogliosamente e si rivolge indirettamente al pubblico quasi che il suo fosse un monologo, intavolando subito una convincente compravendita diretta al pubblico: tutto cambia quando arriva lui, il cliente, che si fa spazio da una piccola apertura della sala e comincia una trattativa avvincente.
Tutto si svolge in uno spazio tempo sospeso, di sera, nell’ora che volge al crepuscolo, in uno spazio semivuoto ed evocativo sulle note ipnotiche delle Variazioni Goldberg di Bach, nella versione incisa da Glenn Gould.
«Ho riletto La solitudine di Koltès durante il primo lockdown. In quei giorni pensavo spesso, a volte in modo ossessivo, ai teatri chiusi: vuoti, bui, freddi, silenziosi. Era un’immagine che allo stesso tempo mi attraeva e mi spaventava – spiega De Rosa – Che cos’è un teatro vuoto? Continua a esistere per chi? Ho immaginato il luogo dove si svolge Nella solitudine dei campi di cotone come un teatro vuoto. Se è vero, infatti, che possiamo vedere davvero uno spazio solo nel momento in cui si svuota, allora questo è un momento privilegiato per chiederci il teatro cos’è».
Potrebbe essere il teatro quindi il misterioso oggetto della serrata trattativa tra i due protagonisti che fagocitano il palco, ma anche no.
Ma non questo ciò che conta: quel che importa è il dialogo, serratissimo, avvincente e appassionante sulle reciproche ragioni di due individui che si attraggono e si respingono, sembrano essere tanto vicini quanto distanti, non solo nelle parole, ma anche fisicamente in un reciproco tentativo di persuasione, di portare l’uno verso l’altro. Al centro il desiderio e il possesso di qualcosa di non materiale che riesca ad affrancarli.
Ciascuno tenta di far leva sull’altro, forse inutilmente o forse no perché alla fine ecco apparire un punto di incontro, nel superamento di una solitudine che li accomuna.
Straniante ed evocativo, il testo, estremamente affascinante e complesso, richiede sforzo di concentrazione e attenzione da parte del pubblico e si affida alle straordinarie e raffinate interpretazioni di Federica Rosellini e Lino Musella, entrambi premi UBU. Lei, altera venditrice, si destreggia fra le parole cercando di ingraziarsi il dealer con fare convincente e seduttivo, plasmando la parola, ma senza mai cedere a prevedibili smancerie. Lui, Lino Musella, compratore ritroso, ma forte delle sue certezze, è irresistibilmente attratto dalla merce proposta in uno spazio tanto evocativo quando desolante. Da non perdere. In scena fino al 29 maggio, info su teatrodiroma.net.
Fabiana Raponi