È dedicato alla memoria di Paolo Graziosi recentemente scomparso, che con Giuseppe Pambieri aveva debuttato nella stagione estiva al Festival del Teatro Classico di Formia diretto da Vincenzo Zingaro proseguendo al Plautus Festival di Sarsina, al Teatro Antico di Segesta nell’ambito delle Dionisiache e in altri siti archeologici, questa tragedia di Seneca poco rappresentata a teatro, con un’accentuata prevalenza del racconto parlato che descrive gli eventi.
Esemplare unico di teatro tragico latino pervenuto a noi che non si basa su un modello greco, l’incontenibile bramosia di potere e il sanguinario impulso di violenza fratricida del testo di Lucio Anneo Seneca hanno costituito il substrato del conflitto tra istinto e ragione cui si ispirò Shakespeare nel “Titus Andronicus” e in “Amleto”.
L’opera teatrale si apre con l’Ombra del capostipite Tantalo che, avendo sfidato la chiaroveggenza degli dei offrendo loro in pasto il figlio Pelope e per questo condannato all’eterno supplizio nel Tartaro di non riuscire ad agguantare l’acqua e il cibo, è incitato dalla Furia a fomentare l’odio per alimentare la malvagità della sua stirpe. Un cortigiano narra dei nipoti Tieste e Atreo divisi da un odio feroce avendo il primo sottratto la sposa all’altro e aspirato al regno. Riconquistato il trono di Micene con l’aiuto di Giove, Atreo esilia il fratello che poi richiama mostrandosi desideroso di pacificazione per potergli propinare un’atroce vendetta. Sarà tale la ferocia che Tantalo preferirebbe non esserne testimone e far ritorno al suo castigo eterno.
Tieste dovrà affrontare il proprio destino senza accorgersi della capziosa macchinazione ordita dal folle Atreo, che gli servirà un banchetto con brandelli delle carni dei figli e una coppa di sangue.
Da Atreo discenderanno Menelao e Agamennone e da questi Ifigenia, Oreste ed Elettra in una spirale di ineluttabile violenza priva di pietà, come ci tramandano le tragedie greche.
Il disprezzo delle leggi naturali, la perdita del senso di giustizia, l’empietà, la bramosia di potere sono i pilastri del governo politico che non prospetta una catarsi, in cui i personaggi non si orientano alla redenzione ma ricorrono a esecrabili violenze come unico elemento di conservazione del potere.
Seneca descrive con sconvolgente e dettagliata minuzia l’uccisione, lo squartamento e la bollitura dei poveri corpi per rendere tangibile l’efferatezza cui può giungere il connubio tra potere e malvagità che, ribaltando i valori civili e democratici, persegue il proprio crudele disegno avverso alla pacificazione sociale. Il volto spietato del potere che rinnega gli dei e si sostituisce ad essi mitizzando se stesso è anche frutto di un piano ideato con truce raziocinio in cui la prevaricazione soppianta la legge, come incita la Furia: “muoiano fede, lealtà e diritto”.
D’altronde “nihil sub sole novum”, è così anche oggi nei regimi autocratici dove violenza e potere sono inscindibili e la storia non è maestra di vita.
Questa minuziosa analisi di Seneca del totalitarismo familiare, sociale e politico conferma di essere un classico, anche alla luce dell’attuale contingenza storica di un conflitto in atto tra popoli fratelli, secondo la definizione di Italo Calvino: “Un classico è un libro che non ha mai finito di dire quel che ha da dire”.
L’adattamento e regia di Giuseppe Argirò mettono in rilievo l’abiezione umana concedendo spazio ed enfasi descrittiva all’efferatezza della vendetta. Giuseppe Pambieri riesce a far baluginare negli occhi l’acquosa follia di Atreo e luciferini bagliori di delittuoso compiacimento nel descrivere al fratello le modalità di realizzazione dell’empio banchetto. Nel ruolo di Tieste, che fu di Paolo Graziosi, Gianluigi Fogacci passa dalla mitezza del ritorno in patria allo sgomento della consapevolezza. Sergio Basile, Elisabetta Arosio, Roberto Baldassarri e Vinicio Argirò sono gli altri interpreti. Musiche di Vincenzo Incenzo.
Minimaliste le scenografie: il trono, un baule, il lungo tavolo del banchetto finale dove fin dall’inizio è posto il piatto con le teste mozzate