Riflessioni su Un ballo in maschera
di Verdi
Marco Arturo Marelli
Nel mio lavoro di scenografo cerco soprattutto di analizzare il contenuto
più profondo dell’opera per configurarlo visualmente e per creare uno
spazio emozionale in sintonia con le azioni sceniche.
Una mera lettura degli eventi narrati porterebbe solo alla creazione di
un’illustrazione superficiale e improntata al naturalismo, cosa che non
apprezzo e che reputo profondamente lontana dall’essenza dell’opera
musicale.
Un ballo in maschera è la storia di un regnante, di un sovrano, che svol-
ge la propria funzione con estremo successo, e che, osservato dall’ester-
no, conduce una vita brillante e ricca di soddisfazioni ma, se osservato
nel privato, è un uomo molto solo e affamato di emozioni.
Egli ricerca una soluzione a questo suo inappagato anelito d’amore, che
sfortunatamente crede di trovare nella sposa del suo migliore amico non-
ché consigliere politico.
La fonte di questo lavoro è una figura storica realmente esistita, re Gusta-
vo lII, figura di spicco nel panorama della storia svedese del XVIII seco-
lo, un regnante di grande personalità impegnato anche a dare una festa
dopo l’altra e che alla fine verrà assassinato dai propri avversari politici.
Verdi però dimostra poco interesse per la figura storica e si concentra in-
vece sull’aspetto psicologico dell’essere umano, la cui fine viene prean-
nunciata da ammonimenti politici e da diverse profezie. Di nuovo centra-
le è una sorta di “forza del destino”, per Verdi tema fondamentale e ri-
corrente in molte delle sue opere. Nel contempo però ci pone una que-
stione altrettanto importante: possiede veramente l’uomo un proprio libe-
ro arbitrio? Come si relaziona a esso? Forse questa libertà può essere
conquistata solo attraverso la rinuncia a sé stessi?
Molti dei personaggi di Verdi subiscono il proprio destino a causa di un
rifiuto sociale, divengono vittime in quanto emarginati. La figura di Ric-
cardo/Gustavo è tutt’altro che un outsider, un reietto: è un regnante dalle
innumerevoli buone qualità e amato dal suo popolo. Ma anche il suo de-
stino si compie in maniera funesta. Getta al vento ogni avvertimento, an-
che se ben intenzionato, nega la profezia e, mentre cerca di eluderla, di
fuggirla, corre dritto verso la morte. Come se non esistesse per lui nessu-
na altra prospettiva.
Certamente la morte è l’unica vera certezza di ogni vita, tutte le strade
conducono prima o poi a questa conclusione. Ma il come ci relazioniamo
a questa prospettiva, è il tema centrale di questa opera di Verdi, e non so-
lo di questa.
Ho cercato di tradurre questo tema in una dimensione scenica creando
uno spazio che si restringe in maniera fortemente prospettica e che nel
fondo conduce al nulla, alla nera oscurità.
In questa opera assistiamo alle vicende di un uomo, che intenzionalmente
asseconda questo sprofondare nella morte.
Questo spazio è progettato come un dipinto illusionistico che simboleg-
gia i sogni irrealistici dell’eroe, i suoi meccanismi interni e il suo subcon-
scio. Spostando i singoli elementi, diventano visibili anche gli spazi
esterni.
Si abbandona senza remore alle false illusioni e accelera con il proprio
fantasticare la sua fine. Solo quando è troppo tardi arriva a comprendere
che sarebbe stata possibile anche un’altra prospettiva di vita.
Il destino trova la sua controparte visiva in un grande roccia, un luogo ar-
caico, ispirato a una frase del romanzo epistolare Iperione (Hyperion
oder Der Eremit in Griechenland, 1797) del poeta tedesco Friedrich
Hölderlin:
Le onde del mare non spumeggerebbero così alte, non sarebbero il
genio, se contro di esse non fosse la vecchia roccia muta, il Destino.
Aprile 2021