Il Capitale. Un libro che non abbiamo ancora letto
Andato in scena al Teatro Arena del Sole di Bologna per VIE Festival
Il Capitale è il famoso libro di Karl Marx che tutti conoscono, ma nessuno ha letto. Il Capitale è un trattato di più di 1200 pagine che, anche le poche persone che hanno letto, probabilmente non hanno capito. Ma il Capitale è anche un sistema, una condizione di vita nella quale siamo impregnati tutti i giorni e lo siamo talmente profondamente che non riusciamo più a distinguere in quali trappole siamo finiti e quanto stiamo dando delle nostre esistenze a questo sistema. Questo finché non succede un fatto che rompe gli argini e che permette a un gruppo di persone di squarciare il velo di Maya e di lottare per quello che fino al giorno prima era semplicemente un diritto e una routine: il proprio lavoro. Questo finché due ragazzi che vivono di teatro non decidono di raccontare una storia di ribellione e le vite di coloro che l’hanno vissuta, di dare loro un nome, un volto, un’identità.
Ed è proprio cercando di instaurare un dialogo creativo tra un classico della letteratura filosofica ed economica e persone vere, reali che la compagnia di teatro Kepler-452 realizza l’ultimo spettaccolo Il Capitale. Un libro che non abbiamo ancora letto, andato in scena all’Arena del Sole di Bologna per l’edizione 2022 di VIE Festival.
Tutto nasce quando Enrico Baraldi e Nicola Borghesi s’imbattono con i lavoratori della GKN di Campi Bisenzio, una fabbrica che ha appena chiuso e deciso di licenziare in tronco tutti gli operai. Una storia che finisce per aprire un capitolo di un’altra storia fatta di lotta, di rivendicazione dei propri diritti, di collettività e accompagnata da un unico grande slogan: INSORGIAMO.
Era il 9 luglio 2021 quando i 422 operai della GKN ricevono un mail in cui viene loro comunicato che non devono più presentarsi a lavoro perché sono tutti licenziati. In tronco. Ma gli operai non ci stanno e da quel giorno occupano la fabbrica per impedire che venga smantellata. La compagnia Kepler-452 entra nella fabbrica i primi giorni dell’autunno 2021 e chiede di poter rimanere un po’ con l’intento di raccogliere informazioni per uno spettacolo dal titolo Il Capitale ispirato all’omonimo libro di Karl Marx. Il collettivo accetta e i due autori intervistato centinaia di operai, partecipano a picchetti, assemblee, manifestazioni, ascoltano finché la loro attenzione si concentra su tre persone in particolare: Iorio, manutentore, Felice, operaio addetto al montaggio e Tiziana, operaia addetta alle pulizie, che hanno invitano in scena con loro.
Lo spettacolo prende vita e si dirama in due direzioni che si intersecano alla perfezione. Nicola Borghesi, in scena insieme agli operai, con grande umiltà fa un racconto di quelle che sono le sue sensazioni e riflessioni, del suo smarrimento di fronte alla vastità di quel luogo ma lascia che siano gli operai a raccontare le particolarità della vita in fabbrica dando allo spettacolo una dimensione di grande verità. Felice racconta la sua infanzia difficile e il percorso che lo ha portato a fare quel lavoro che lui amava, dove aveva trovato una famiglia, nel quale si sentiva protetto, considerato e valorizzato. Iorio racconta la sua depressione dopo la morte di un suo collega, racconta gli attacchi di panico, la stanchezza di alzarsi ogni mattina per andare a lavorare quando si vorrebbe solo sparire, le sedute dallo psicologo e la rinascita, una volta occupata la fabbrica, la sensazione di aver riconquistato il suo tempo e la voglia di vivere. Tiziana invece porta in scena la difficoltà di essere donna in un ambiente prettamente maschile: la diffidenza, il sessismo e la sensazione di dover essere più dura e forte per farsi valere. Salvo poi accorgersi che quando le persone diventano tali, con un nome e una storia e quando si lotta per un medesimo scopo non ci sono più ruoli e gerarchie, si perde ogni distinzione e semplicemente si è, tutti insieme e tutti per la stessa causa.
La scena è delimitata da una grande tenda a lamette verticali di plastica, dove vengono proiettate le immagini della fabbrica, gli anormi macchinari, i lunghi corridoi deserti, immagini girate da Chiara Caliò che permettono al pubblico di entrare in questo luogo asettico, di percorrere gli sterminati corridoi con lo sguardo. In scena due banchi la lavoro con gli strumenti del mestiere, grazie ai quali gli operai in scena descriveranno minuziosamente il loro operato.
Si passa dunque dalla descrizione della vita di fabbrica all’approfondimento delle storie di queste persone, dei loro sogni, delle loro paure in un dialogo continuo tra documentazione e vicende umane che agglomerano non solo gli operai ma anche gli autori che si pongono domande sul loro fare teatro e sulla profonda difficoltà di costruire un sistema diverso da quello capitalistico anche in ambito culturale. Con l’ammissione che il fine ultimo per loro era di fare un bello spettacolo, che piaccia al pubblico, per avere la possibilità di farne poi un altro ancora più bello, con più luci, più fondi e più spettatori.
Se anche lo scopo dei Kepler-452 fosse puramente artistico va comunque dato loro il merito di avere messo in scena uno spettacolo che ha dato la possibilità agli operai di raccontarsi di dare voce alle loro storie e ha lanciato molti temi sui quali riflettere, interrogarsi e ha permesso di far risaltare argomenti estremamente attuali. La presenza, non solo in scena, ma anche in pubblico degli operai dell GKN ha reso tutto molto sentito. Gli applausi accompagnati da quei pugni chiusi diventano sono simbolo di lotta, della volontà di non arrendersi alla sopraffazione, di far valere i propri diritti e provare a ribaltare il sistema sempre più pervasivo e invadente per “dimostrare a noi stessi che qualcosa ancora accade. Per tenere aperto uno spiraglio dove possa passare aria e possa passare vento. Allora scegliamoci delle buone compagne e dei buoni compagni di vita e di lotta. E proviamoci, proviamoci insieme, a non vivere invano e a non morire soli”.
Amelia Di Pietro