Meno popolare del celeberrimo Orfeo ed Euridice, l’Alceste di Christoph Willibald Gluck in realtà rappresenta il punto di arrivo della propria riforma – rivoluzione del melodramma italiano nel Settecento di Gluck-De Calzabigi: un piccolo gioiello tutto da apprezzare, tornato al Teatro dell’Opera di Roma nel sofisticato allestimento del 2019 del Bayerische Staatsoper in prima assoluta in Italia, firmato dal regista e coreografo firmata da Sidi Larbi Cherkaoui, in scena fino al 13 ottobre.
Tanti i motivi per vedere e apprezzare questa sontuosa opera, essenza della semplicità lineare della riforma del melodramma: assente dal palco del Costanzi dal lontano 1967, l’Alceste di Gluck viene riproposta nell’elegante versione francese del 1776, diretta con raffinata semplicità e sensibilità, ma forza comunicativa dal Maestro Gianluca Capuano, specialista del repertorio del Settecento e già apprezzato per l’Orfeo ed Euridice di tre anni fa al Costanzi alla guida dell’orchestra capitolina. La direzione di Capuano, sempre ben sostenuto dall’Orchestra, è sempre molto attenta a mantenere alta la tensione accompagnando l’alternanza di arie tragiche a momenti più lirici e romantici.
Ma se l’Alceste rappresenta il punto di arrivo della riforma gluckiana, con tanto di manifesto nella precedente versione viennese, a Roma è tornata in scena la raffinata versione francese, elaborata, ma sofisticata in tutta la sua semplicità enunciata. La vicenda, tratta dall’omonima tragedia di Euripide, è sempre la stessa, mettendo al centro del dramma un florilegio di sentimenti forti, l’amore, il senso del sacrificio, la devozione, l’eroismo. Alceste, sposa del re Admète, e madre di due due figli, è pronta al sacrificio estremo, ad offrire sé stessa agli dèi pur di riscattare la guarigione del marito morente. Arrivati nell’Ade, gli sposi verranno entrambi salvati dall’arrivo di Ercole, eroe deus ex machina, che scaccia gli déi infernali restituendo alla vita Alceste ed Adméte.
È necessario però partire da un presupposto centrale: la regia è affidata a Sidi Larbi Cherkaoui, allievo di Anne Teresa De Keersmaeker, e vincitore di due Laurence Olivier Award e del Premio Europeo per il teatro, che mostra chiaramente di essere prima un coreografo e poi un regista. E che Cherkaoui sia un coreografo, si vede eccome e si evince in ogni piega dell’allestimento, bellissimo e ipnotico. Da una parte sussiste una certa indubbia staticità nei personaggi principali, collocati negli angoli strategici del palco ottimamente illuminati da Michael Bauer, ma è anche vero che è onnipresente il coro muto, estensione del coro e vero e proprio personaggio, che viene interpretato dalla compagnia Eastman di Anversa, la compagnia di danza del regista. Sinuosi, flessuosi, di bianco vestiti, questi danzatori rappresentano l’estensione del coro, in scena quasi dall’inizio alla fine, a catturare con movimenti geometrici o sinuosi la musica, avvolgendo, quasi avviluppando, i protagonisti e le loro tensioni emotive. Un coro danzante che diventa l’elemento chiave di questo pregiato e luminoso allestimento di Alceste che colpisce da una parte per la semplicità e l’essenzialità, ma dall’altra per l’elegante ricchezza visiva che resta estremamente asciutta. Ogni gesto coreografico cattura la parola e la musica, la amplifica e la restituisce al pubblico in un andamento leggiadro e continuo, ma mai ingombrante. Molto funzionali le scene, asciutte di Henrik Ahr, grandi pannelli semimovibili in qualche modo deturpati nel loro candore da chiazze scure. Nel terzo atto, nell’Ade, tutto cambia e diventa più dinamico: i danzatori si trasformano in demoni danzanti, di nero vestiti che si muovono all’interno di grandi impalcature o che si trasformano in creature infernali invadendo spaventosamente la scena avanzando sui trampoli. Stile lineare, geometrico e molto pulito dei costumi realizzati da Jan-Jan van Essche con tessuti fluidi e colori minimali, eccezioni fatta per gli abiti di Alceste, d’oro agghindata, e di Admète. Il cast, unico, in scena a Roma, entusiasma il pubblico che regala lunghi applausi alla bravissima Marina Viotti, talentosa ed eclettica artista al debutto nel ruolo della nobile Alceste che si lascia ricordare per l’intensità, la duttilità e il colore delle sfumature che regala al suo personaggio. Molto apprezzato, il tenore Juan Francisco Gatell, presenza consolidata all’Opera, che tratteggia un Adméto impetuoso e vocalmente molto brillante. Di buon livello anche le interpretazioni di Patrik Reiter (Évandre), Roberto Lorenzi (un dio infernale e un oracolo), Pietro Di Bianco (Apollo e un araldo), dei corifei Carolina Varela, Angela Nicoli, Michael Alfonsi, Leo Paul Chiarot, del coro diretto da Roberto Gabbiani. Opera tutta da vedere cogliendo le ultime due repliche, stasera, martedì 11 ottobre e giovedì 13 ottobre ore 20. Info su operaroma.it.
Fabiana Raponi