Michele Guardì
, firma autorevole della RAI, scrive e dirige Il caso Tandoy, uno spettacolo che all’epoca dei fatti fu un caso di mala giustizia supportato dal sensazionalismo alimentato dalle testate scandalistiche che, allora come adesso, imbastivano processi ai presunti colpevoli prima ancora che si pronunciasse il tribunale. In una mansarda stipata di quotidiani accatastati, uno scrittore cerca ispirazione per scrivere una commedia su un errore giudiziario che fece scalpore negli anni sessanta: l’assassinio ad Agrigento il 30 marzo 1960 del commissario di polizia Cataldo Tandoy che, insieme alla bellissima moglie Leila, rientrava a casa alla vigilia del trasferimento a Roma. Un proiettile vagante uccide anche il giovanissimo Ninni Damanti.
Con l’intento di analizzare i fatti da un’ottica non preconcetta, l’Autore fa emergere dalle cronache del tempo i personaggi, come un libro pop-up per bambini dalle cui pagine aperte fuoriescono le immagini tridimensionali.
Suo antagonista è il Procuratore che ostinatamente ribadisce l’assunto sostenuto al tempo delle indagini, di un delitto passionale maturato nella retriva atmosfera della provincia. A uno a uno entrano in scena i personaggi della vicenda, con le stesse dinamiche caratteriali descritte dai giornali dell’epoca. La sensuale e confusa Leila, il gaudente e tenebroso psichiatra Mario La Loggia suo amante, la disinibita moglie slava del medico e perfino lo stesso commissario, che si appalesa sbucando da un sipario sul fondo per sostenere le sue argomentazioni.
Il Procuratore pervicacemente continua ad asserire che non si tratta di delitto di mafia ma di matrice passionale, avendolo il medico concertato insieme all’amante per non perderla a causa del trasferimento del marito. Il commissario, tuttavia, dichiara di essere indifferente ai tradimenti della consorte alla quale invece è grato per aver accettato di sposarlo nonostante la perdita della virilità per una mutilazione subita in guerra.
L’ottuso e gretto bigottismo e l’incrollabile fede nel proprio intuito investigativo rendono il Procuratore sempre più tetragono sulla validità del proprio teorema, la cui tesi va rafforzando attraverso presunti indizi ricavati dalla congerie di lettere anonime che riceve, e fa arrestare i due amanti, benché lo psichiatra appartenga a un’influente famiglia agrigentina e sia fratello di un potente uomo politico della DC già presidente della Regione siciliana.
L’impalcatura passionale si spinge fino a ipotizzare una relazione di “tribalismo” (come sprezzantemente la definisce il Procuratore) fra la moglie del commissario e la moglie del medico, in precedenza amiche. Sesso, potere, politica, fascino. La mafia sembra assente.
I tentativi dell’Autore di frenare la parossistica e infondata foga accusatoria del Procuratore non sortiscono effetto e il malcapitato si trova anche a doversi giustificare con la moglie che lo accusa di dare troppo sfogo alla sua immaginazione creativa.
Arriverà l’assoluzione e quel giorno i titoli in prima pagina furono per “Palermo-Parma 0-0”. Lo scandalo si era sgonfiato e i riflettori si erano spenti. Un nuovo magistrato riaprirà le indagini otto anni dopo, svelando le frequentazioni e connivenze della vittima con la politica malavitosa locale. La corte di Assise di Lecce comminerà dieci ergastoli, ma in galera finirà solo l’esecutore materiale condannato a trent’anni perché ha ucciso in stato di bisogno.
Gianluca Guidi è istrionico nel desiderio di far prevalere la fantasia creativa dello scrittore sul pedissequo e aprioristico convincimento del magistrato che la sessualità disordinata sia l’origine dei mali della società. Giuseppe Manfridi, drammaturgo dotto e raffinato e talora attore, esprime nel personaggio del Procuratore l’inscalfibile certezza che la corruzione dei costumi e l’immoralità mietono più vittime della mafia e per svelare un delitto non bisogna cercare le prove ma portare elementi a sostegno della propria tesi. Gaetano Aronica, Roberto Iannone, Noemi Esposito, Marcella Lattuca, Marco Landola, Antonio Rampino e Caterina Milicchio gli altri interpreti.
Scene e costumi di Carlo De Marino, musiche di Sergio Cammariere. Nel finale l’Autore, quasi a riaffermare il primato della fantasia sulla legge, fa raccontare ai protagonisti schierati in scena la propria verità. Lo psichiatra mostrerà la lapide fatta affiggere all’ingresso del manicomio dove era tornato come primario: “Qui non tutti ci sono e non tutti lo sono”. Cala il sipario sulla vicenda e sulla sua rappresentazione.
Tania Turnaturi