Non è Natale senza Lo Schiaccianoci, classica fiaba rappresentata dai corpi di ballo di tutto il mondo durante le festività. Non è da meno il Teatro alla Scala, che apre la nuova stagione
con la versione di Rudolf Nureyev, dopo 16 anni dall’ultima messa in scena e a celebrazione
del grande coreografo, di cui nel 2023 ricorre il trentesimo anniversario dalla scomparsa.
Nureyev si accinse a rivisitare il titolo di Petipa – Ivanov nel 1967 reinterpretandolo a modo
suo, tenendo ben poco delle danze originarie e dando vita a un’opera totalmente nuova di
stampo accademico – teatrale. Fin dal primo atto, infatti, si può notare l’attenzione ai
momenti d’insieme, dei veri e propri quadri curati nei minimi dettagli e arricchiti da
un’ironia che strappa il sorriso sulle labbra più di altre rivisitazioni – si pensi alle danze dei
bambini, dove non mancano dispetti e parapiglie, o alle gag dei due traballanti nonnini.
Come in ogni titolo del ‘tartaro volante’, ruolo centrale è sicuramente quello maschile del
principe Schiaccianoci, a cui viene conferito una sorta di lato oscuro, essendo infatti
presentato dallo stesso interprete di Drosselmeyer – ambiguo tutore della giovane Clara.
Anche di quest’ultima viene presentato un duplice aspetto, nel suo percorso da bimba con
uno schiaccianoci giocattolo tra le mani ad adolescente tra le braccia di un giovane principe.
Uno Schiaccianoci, dunque, psicologico, che indubbiamente colpisce anche, e soprattutto,
per la difficoltà della danza.
Dal punto di vista tecnico, infatti, questa versione non è di facile esecuzione: anche un
occhio poco esperto può riconoscere e apprezzare la complessità della danza, ricca di
passaggi altamente complessi che mettono alla prova anche i migliori interpreti.
Venendo ai cast scaligeri, abbiamo assistito alla recita del 21 dicembre con il debutto di
Claudio Coviello e Agnese di Clemente nei ruoli principali. Entrambi offrono una buona
interpretazione, nonostante qualche imprecisione nei tecnicismi più complessi – inevitabile,
ad onor del vero, considerando la difficoltà dello stile di Nureyev. Imprecisioni che vengono
assolutamente annullate dalla bellezza della partnership dei tre passi a due che
contraddistinguono il titolo e, come spiega Marinella Guatterini nel programma di sala,
dispiegano anche il processo evolutivo di Clara da bimba ad adolescente.
La prima partnership, ad inizio del sogno, presenta una Clara bambina e si configura come
una danza parallela dei due interpreti, che si sfiorano a stento ma che si avvicinano
progressivamente nel duetto centrale fino ad incontrarsi pienamente nel Grand Pas de Deux
finale, quando Clara conclude il suo percorso evolutivo, in un tripudio di prese e virtuosismi
di coppia.
Note di merito anche per il corpo di ballo, ammirevole sia nelle danze d’insieme del primo
atto, tra cui colpisce la magia e suggestione del valzer dei fiocchi di neve, che nei quadri di
carattere del secondo. Presenza importante anche quella degli allievi dell’Accademia
scaligera, che contribuisce alla produzione sia con la scuola di ballo che con il coro di voci
bianche.
Scene e costumi di Nicolas Georgiadis accompagnano la produzione. Rispetto al tripudio di
colori proprio di altre versioni – si pensi a quella di Balanchine – toni più cupi e austeri
contribuiscono ad accentuare il lato psicologico/analitico del titolo di Nureyev,
ulteriormente enfatizzato dal guizzo della bacchetta di Valery Ovsyanikov nella pienezza
delle note di Tchaikovsky.
Applausi meritati e repliche in scena fino all’11 gennaio.