Il locale è dei più rinomati e richiesti, è il cuore della scena. Quella vecchia radio che difetta un ascolto continuo trasmette quasi solo musica rythm’n’blues. Pezzi forti che legano in un filo indissolubile gli anni ‘50 con i ‘60, i ‘70 con gli ‘80, ‘90 e persino 2000.
Un bancone da bar con all’angolo luminescenti bottiglie di liquori da farsi annebbiare la mente, ma non la vista, se ne sta quasi mogio sullo sfondo. Un uomo delle pulizie, il tradizionale inserviente, rassetta lo spazio comune lì di fronte, a pochi passi. Ma ecco che sussegue del trambusto. Spuntano altri tre del personale e hanno tutta l’aria di non esser lì per dare una mano, non sono di certo lì per lavorare. Li scopriamo essere dei ballerini acrobatici, degli equilibristi, instancabili costruttori di piramidi umane, saltatori impavidi entro limbi col fuoco, pavoneggianti sbandieratori, saltellatori di gambe e di glutei, da terra o in aria, della corda e nei cerchi.
Ad ogni tratto di show, il ritmo frenetico prende fiato ma le gambe o i muscoli continuano a molleggiare senza sosta. Somiglia quasi ad uno sport di fiato a corrente alternata, capace di ripercorrere in maniera avvincente la colonna sonora del noto stracult di John Landis. E non solo. A sprazzi, udiamo persino Joe Cocker, Michael Jackson e Psy. I cinque fratelli neri, kenyoti, reduci da circa 700 date in tutto il mondo, tra numerosi sold-out e standing ovation ricevute anche da illustri personalità quali Papa Francesco, il Principe Alberto di Monaco e la Famiglia Reale inglese, pensano soprattutto allo spettacolo e di spettacolo ce n’è a bizzeffe. Non è attraverso questo pompante show, del resto, che ci si lascia attrarre dentro intenzionalità riflessive.
Non si servono di fondamenti drammaturgici. Le numerose acrobazie lasciano spesso e volentieri di stucco, a tratti si teme per l’incolumità di quegli uomini così dediti alla rappresentazione della loro forma d’arte e non si ha neanche il tempo di pensare cosa si potrebbe nascondere dietro a questa voglia di ballare, di saltare in aria come se non ci fosse un domani, nel tentativo di esorcizzare le indubitabili ingiustizie.
Del resto, il blues e il jazz sono generi musicali nati nella polvere, negli acquitrini dei campi e nella fanghiglia delle terre contadine, dentro un pieno grido di disagio e sofferenza. Si temono conseguenze persino per quegli spettatori che vengono coinvolti da quella che è una vera e propria festa, condotti per mano sul palco e accompagnati nella visione assistita a due passi dal miracolo o nell’imitazione semplificata di passi e movenze tra le più ordinarie. Sono i passi e le movenze che preparano al colpo ad effetto che non a caso arriva pochi secondi dopo, in maniera lampante e a occhio nudo. Sono come squarci di negritudine animatamente audaci che non disdegnano delle astute e lungimiranti pause percorse da un silenzio quasi irreale.
Si guardano, si scrutano ammiccando al pubblico, i cinque fratelli del blues. “Adesso basta! Finito!”, grida al pubblico, più di una volta, il capobanda. Redarguisce senza crederci più di tanto. Ma le monellerie giocose degli altri quattro non possono avere un termine. Sono destinate a durare un tempo ancora. Il tempo dello stravolgente disarmo delle inettitudini. Non ci si sente neanche lontanamente capaci di tali acrobazie, eppure si esce dal vasto, largo e complesso show con la netta sensazione che volere è potere. E che potere è consapevolezza, audace, sfacciato superamento dei propri limiti. Saltare dentro un cerchio infuocato, ad esempio, se si guarda oltre lo stesso cerchio, può non farti avvertire il calore. La corda tesa, può darti la sensazione di essere qualcosa d’impalpabile. Dietro a ogni impresa, c’è dietro una dispendiosa preparazione fisica, una grande e rigorosa impostazione coreografica (pezzo forte dello show).
Il profluvio di energie è alto e si diffonde fra gli interstizi delle poltrone dove sono comodamente sedute le persone. E non è un caso che due dei cinque fratelli spuntino proprio dalla platea. L’energia lì nasce e ritorna, sempre e comunque. E ha braccia tese e larghe. Accoglie tutti, indiscriminatamente. Una pirotecnica lezione di fratellanza.
Federico Mattioni