“Un classico è un testo che non ha finito di dire quel che ha da dire” sosteneva Italo Calvino.
Quindi un classico è il romanzo storico “I Viceré” di Federico De Roberto, che subì all’uscita nel 1984 la stroncatura di Benedetto Croce ma parla ancora alle coscienze ed è ritenuto un capolavoro del Verismo italiano.
La parabola dell’aristocratica famiglia catanese Uzeda di Francalanza rivive a teatro nella pienezza della decadenza umana e sociale, negli anni a cavallo dell’Unità d’Italia, con tutto il suo carico di avidità, degrado morale, doppiezza, odi familiari.
I rapporti fra i componenti della brutta “razza” abbarbicata ai privilegi, che dapprima resiste al vento liberale del Risorgimento che soffia sulla penisola e poi si adegua per opportunismo, sono improntati all’egoismo e al tornaconto personale.
La lettura del testamento preceduta dalla sequenza interminabile dei titoli nobiliari della principessa Teresa lascia insoddisfatti tutti gli eredi: il primogenito Giacomo equiparato al fratello minore Raimondo dissipatore e libertino ma prediletto dalla madre, e gli altri figli destinatari di piccoli legati e già obbligati alla vita monastica o a matrimoni di convenienza.
Ci sono gli elementi per una faida familiare, paradigmatica della condizione dei casati in cui poter rivendicare proprietà, potere, privilegi, rendite.
Sullo sfondo, il colera, i moti insurrezionali, lo sbarco dei Mille in Sicilia, la proclamazione del Regno d’Italia, la presa di Roma, la confisca dei beni ecclesiastici, le elezioni politiche del 1882 con la nuova legge elettorale (riservata ai maschi che sapessero leggere e scrivere).
L’avido principe Giacomo impone il suo predominio ai fratelli. Il dissoluto Raimondo insegue i suoi piaceri, Angiolina rivendica la propria quota di eredità come dote per il convento, l’infelice Chiara partorisce l’ennesima creatura morta, Lucrezia ambisce a sposare Benedetto, avvocato plebeo simpatizzante di Garibaldi. Funge da osservatore degli eventi e voce narrante lo zio don Blasco, vizioso disincantato e pettegolo monaco benedettino, scalzato dal nipote Lodovico dal titolo di abate.
L’affresco del mondo aristocratico siciliano vira dal regno borbonico allo Stato unitario attraversando le resistenze, il trasformismo e l’opportunismo di una classe sociale la cui visione è sintetizzata da don Blasco: “adesso che abbiamo fatto l’Italia, pensiamo agli affari nostri”. E, infatti, sotto il dominio spagnolo gli Uzeda erano Viceré, nel parlamento unitario lo zio Gaspare sarà deputato e poi senatore del Regno: “destra, sinistra, non significano più niente. Di questi tempi tutto cambia velocemente e non possiamo star dietro alle etichette”, è l’epitaffio del conformismo.
Anche don Blasco effettua la sua metamorfosi e dopo la soppressione degli ordini religiosi e la confisca dei beni ecclesiastici acquista le proprietà del convento di San Nicola, abbracciando il liberalismo di facciata. Dal potere del denaro al potere della finzione.
Nel finale, rivolto al pubblico, lancia l’ultima invettiva: “Non bisogna inimicarsi le istituzioni, ma utilizzarle a proprio beneficio”.
Forse non è cambiato molto da allora!
L’ambientazione è affidata alle videoproiezioni su una sottile tendina o sul fondale che materializzano, con immagini che sembrano ologrammi dalle pennellate impressioniste, il sontuoso palazzo Uzeda con la sala degli specchi e la quadreria, l’austero e tetro monastero decorato di mummie di suor Angiolina, la barocca facciata della chiesa di Catania, in una rappresentazione onirica e trasognata.
Pippo Pattavina è il mattatore della vicenda e della scena. Ironico, sarcastico, camaleontico, fustiga i costumi altrui e assolve le proprie debolezze con la morbida cadenza catanese, la sintassi e il sottile distacco di chi, godendo di atavici privilegi, fa credere di snobbarli.
La regia di Guglielmo Ferro concilia lo spirito dell’opera di De Roberto con la spettacolarità, con una messinscena che evoca l’atmosfera ottocentesca catturando l’immaginazione e gli occhi.
Aderenti ai ruoli tutti gli interpreti: Sebastiano Tringali (Giacomo), Rosario Minardi, Francesca Ferro, Rosario Marco Amato, Nadia De Luca, Giampaolo Romania, Francesco Maria Attardi, Elisa Franco, Pietro Barbaro, Giovanni Fontanrosa, Alessandra Falci, Giuseppe Parisi.
Tania Turnaturi