In Anteprima Nazionale al Teatro Era di Pontedera, punto di riferimento del teatro italiano
e non solo, il testo geniale e dissacrante di Sergei Dovlatov, “la valigia”, con
l’adattamento di Paola Rota e Giuseppe Battiston, per la regia di Paola Rota, e come
protagonista sul palco lo stesso Giuseppe Battiston, pluripremiato attore di cinema e
teatro, da tutti ricordato per Pane e tulipani di Soldini. Questa raccolta di racconti è stata
scritta e pubblicata negli Stati Uniti nel 1986. L’autore emigrato a New York dall’Unione
Sovietica era diventato redattore del giornale “New American”. Tutti i racconti del ciclo
sono biografici, poi successivamente adattati anche per la rappresentazione teatrale come
in questo caso.
In Unione Sovietica io non ero un dissidente (essere un ubriacone non conta). Tutto quello
che facevo era scrivere storie ideologicamente aliene. E dovetti partire. È in America che
sono diventato un dissidente. (Sergei Dovlatov)
Questa valigia di racconti con tutti i suoi oggetti, ricordi, episodi, sentimenti, silenzi, ci
narra di come ogni cosa viva di una storia non sua, che rimanda ad altro, in un alone di
sacralità e nostalgia mai espressi, che è un amore incondizionato e sofferto per la propria
terra da parte di un emigrante, che si ritrova a rimaneggiare nella sua coscienza profumi e
narrazioni sepolte di un passato mai passato, di una radice da cui proviene e che lo forma
sempre, anche lontano dalle sue origini. Nel racconto la valigia resterà sigillata e riposta in
un armadio per alcuni anni. Una volta aperta, ogni oggetto toccato di nuovo farà affiorare
un ricordo. Dovlatov scrive secondo il principio un oggetto/un episodio, dando vita così ad
otto racconti intitolati rispettivamente: i calzini finlandesi, le scarpe del sindaco, un bel
vestito a doppio petto, la cintura da ufficiale, il giaccone di Fernand Léger, la camicia di
popeline, il colbacco, i guanti da automobilista. Tutti gli oggetti citati, così come tutti gli
annessi episodi raccontati, riguardano la vita dell’autore in Unione Sovietica.
[..] ma anche così, Russia mia, /di tutte le contrade sei per me la più cara. (Da “Peccare
senza vergogna” di Aleksandr Blok)
La madre Nora, armena, lavora come correttrice di testi letterari, mentre il padre, Donat, di
origini ebraiche, è un noto regista teatrale. Lo scrittore racconta di come la sua passione
per i racconti sia nata negli anni in cui faceva parte dei Giovani Pionieri, un'organizzazione
giovanile di massa curata dal Komsomol su mandato del Partito Comunista dell'Unione
Sovietica. La sera al campeggio estivo con i suoi compagni intorno a lui, Sergej inventa
storie e racconti. La sua passione per il raccontare storie prosegue negli anni universitari,
dove si scontra con la paura del foglio bianco. Dovlatov preferisce fare il narrastorie, con
gli amici vicini intorno al tavolo, piuttosto che il raccoglimento individualistico e solitario
dello scrittore. Poi scopre la sua propensione per il racconto breve e in questo modo
racconta tutta la sua vita, la sua famiglia, la vita delle classi meno abbienti, le sue
esperienze lavorative, anche in prigione, le sue aspirazioni tradite, le sue illusioni e
delusioni, la sua amarezza nostalgica dell’emigrazione, con umorismo graffiante e mai
scontato.
Osservai la valigia vuota. Sul fondo Marx. In cima Brodskij. E tra loro la mia unica,
inestimabile, irripetibile esistenza. La chiusi. All’interno rimbalzarono sonore le palline di
naftalina. Il mucchio variopinto del suo contenuto giaceva sul tavolo della cucina. Era tutto
ciò che avevo messo insieme in trentasei anni, durante tutta la mia vita in Russia. Pensai:
ma davvero è tutto qui? E risposi: sì, è tutto qui. (Sergei Dovlatov)
Il ricorso di Dovlatov all’umorismo, all’assurdo e al grottesco è un’arma contro la realtà e
la sua multiforme capacità di significare molte cose, vivere nelle contraddizioni dei fatti
della vita, nella complessità di situazioni in cui non è sempre facile scegliere chi sono i
carnefici e le vittime, tutti in fondo siamo inermi e buffe creature che vivono l’assurdo di un
destino spesso incomprensibile. La sua acutezza senza sconti e il sardonico punto di vista
su tutto gli permettono di sabotare qualsiasi autoinganno o autoassoluzione rispetto al
ridicolo e alle infinite trame di ciò che si vive. La comicità e il dramma oscillano sempre
nelle grandi piccole storie di ognuno di noi, quel noi caro a Dovlatov che non si mette sul
piedistallo del giudizio, ma con la sua lingua, bruciante e parlata, colloquia con il lettore e
lo spettatore, portandolo nel terreno degli oggetti che ci sono cari e che ci fanno essere
uomini in viaggio, tra una domanda irrisolta e l’altra, tra un’assurdità e il suo opposto.
Purtroppo non ci sono dati statistici certi su quali siano, in russo, le parole più o meno
usate. Cioè tutti sanno, chiaramente, che la parola “merluzzo”, per esempio, è
significativamente più usata della parola, per dire, “sterletto”, e la parola “vodka”, diciamo,
è più usuale di parole come “nettare” o “ambrosia”. Ma di dati certi, ripeto, a questo
proposito, non ne esistono. E è un peccato. Se dati di questo genere esistessero, ci
accorgeremmo che, per esempio, l’espressione “è un lavoro fatto coi piedi” è una delle
espressioni più usate, in Unione Sovietica. (Sergei Dovlatov)
Giuseppe Battiston, con il suo talento e la sua leggerezza infonde spessore e vita agli
oggetti e ai personaggi che riemergono dalla memoria e dall’emozione, uomini e donne
così vicini e così lontani, nella distorsione che svela della comicità, evocando come in una
barzelletta il divertente che fa parte della vita, e come in un romanzo degli amati da
Dovlatov Hemingway e Faulkner, la sua cronaca di drammaticità. Battiston riesce nello
spazio finito e infinito del teatro, che genera la possibilità di evocare il presente quanto il
passato e il futuro, a dare corpo e voce a innumerevoli personaggi, storie, ricordi di un
mondo vissuto dallo scrittore e che non c’è più, adesso disperso in quella terra del sogno
che è l’America, troppo vasta per essere narrata se non sempre con un etc. etc. etc. La
valigia siamo noi, ripete come un monito paterno, questo speaker radiofonico nel
microfono metafisico della teatralità, mentre gli oggetti si susseguono, i personaggi
prendono vita, per declinare nel ricordo stesso da cui provengono magicamente. Una
poetica tragicomica, perfettamente tradotta nella prospettiva del teatro, dove l’esodo, la
Vodka, la partenza senza ritorno, il cugino alla ricerca di rubli, gli amici più folli e stupidi, i
disastrati dalla vita come i poeti emergenti, si fondono e confondono in un sapore antico e
troppo moderno.
Giuseppe Battiston di Sergei Dovlatov adattamento di Paola Rota e Giuseppe Battiston
regia Paola Rota Crediti fotografici Noemi Ardesi produzione Gli Ipocriti Melina Balsamo