Difficile, difficilissimo mettere in scena Ferito a morte di Raffaele La Capria, Premio Strega 1961, uno dei capolavori del Novecento, ma Roberto Andò riesce nell’ardua impresa realizzando un pregiatissimo adattamento teatrale di quello che resta uno dei migliori romanzi polifonici della nostra letteratura.
Accolto con entusiasmo anche al Teatro Argentina di Roma, dove resta in scena fino al 15 gennaio, Ferito a morte con la regia di Roberto Andò è un allestimento evocativo e molto affascinante, dal taglio cinematografico ed onirico.
Realizzato in collaborazione con il Teatro Stabile di Napoli, l’adattamento, curato con sguardo acuto dal premio Strega Emanuele Trevi, offre un taglio trasversale del complicato romanzo lasciandone emergere a tratti il fortissimo impatto musicale, la ricca orchestrazione di voci attraverso una grammatica mai lineare in uno sconfinamento continuo fra i diversi piani temporali di una vicenda che si svolge nell’arco di 11 anni, da quando nell’estate del 1943 a Napoli quando, il protagonista Massimo De Luca, interpretato da Andrea Renzi e Sabatino Trombetta (Massimo da giovane) incontra la giovane italo francese Carla Boursier durante un bombardamento, fino al giorno della sua partenza per Roma all’inizio dell’estate del 1954.
Una storia in qualche modo autobiografica dell’autore, che si è trasferito a Roma, e che richiama I Vitelloni di Fellini, ma non solo. Di che cosa parla Ferito a morte? Se La Capria sosteneva che il suo romanzo parlasse “di tutto e niente” è anche vero che lo stesso autore amava ripetere che “il vero protagonista di questo romanzo, fatto di impressioni sovrapposte, di dialoghi che hanno la futilità di tutto ciò che è fuggevole, di tutto quel che passa, è il tempo. Il tempo della giovinezza”.
E qui il tempo viene evocato attraverso sfumature, voci, rituali, giocate trascorse e perse all’interno del micro mondo del Circolo Nautico in una Napoli da cartolina anni sessanta, in realtà una città che «ti ferisce a morte o t’addormenta», di cui viene lentamente massacrata la classe borghese, fotografata nella sua indolenza, nel suo immobilismo, vinta dalla noia e dalla ripetitività, dall’indolenza apatica di chi si crogiola in sé.
Allo spettatore viene offerto uno spettacolo polifonico spesso affollato dai 16 attori che animano il palco suddiviso in due livelli di azione: Andò riesce a mettere in scena una selezione di voci del romanzo che diventa un montaggio radiofonico e che si apre con l’immagine iniziale di forte impatto della spigola nel mare: in realtà tutto assume anche un taglio cinematografico con le riprese riflesse nello specchio dall’alto e con i due spazi di azione del palco che regalano perpetuo movimento alla messinscena. Nella parte anteriore del palcoscenico, Andrea Renzi, asciutto e incisivo nel ruolo di Massimo adulto cui spetta il ruolo di onnipresente narratore e spettatore, ininterrotto legame della polifonia di voci che si affastella in scena.
Il passato, i ricordi, le riuscite caratterizzazioni dei personaggi, vivono alle sue spalle, complici numerosi cambi di scena che delineano via via gli spazi di una Napoli che viene evocata attraverso flashback e ricordi, tramite episodi di anni diversi che catturano il tempo che passa fotografando alcune scene memorabili, la noia al Circolo Nautico, il movimentato pranzo a casa De Luca, la pesca subacquea e naturalmente gli amori, i rimpianti, la malinconia. Accanto all’ottimo Andrea Renzi, nel nutrito e valido cast di attori si distingue Ninì, istrionico e indolente Giovanni Ludeno, il leggendario playboy Sasà di Paolo Mazzarelli, Gea Martire, la Signora De Luca.
Uno spettacolo che riesce a cogliere in qualche modo lo spirito del romanzo e che riesce ad avvincere lo spettatore catturandolo in una costante atmosfera di nostalgica malinconia. In scena fino al 15 gennaio al Teatro Argentina di Roma.
Fabiana Raponi