Marco Lombardi è regista e direttore artistico della compagnia Giardini dell’Arte, che ha fondato nel 2006 insieme a un nucleo di professionisti del teatro conosciutisi all’Accademia Teatrale di Firenze diretta da Pietro Bartolini. Dopo il debutto con Un giardino d’aranci fatto in casa di Neil Simon, la compagnia ha iniziato un percorso di crescita che l’ha portata alla sua attuale composizione. Accanto a Marco Lombardi, oggi i Giardini dell’Arte sono coltivati ogni giorno con amore e dedizione da Aldo Innocenti, Sandra Bonciani, Laura Bozzi, Raffaella Afeltra, Brenda Potenza e Fiamma Mariscotti, a cui si uniscono di spettacolo in spettacolo attori e professionisti della scena teatrale fiorentina e non solo.
La compagnia ha lavorato spesso con i grandi autori e i classici del teatro, ricevendo negli anni moltissimi riconoscimenti, tra cui i premi al miglior spettacolo nel 2018 con Uno sguardo dal ponte al festival Castello di Gorizia e con Signorina Julie la scorsa stagione ai Festival di Scena a Fasano e XS di Salerno. Tra gli ultimi successi, La stanza di Veronica ha bissato la vittoria dello scorso anno a Fasano e trionfato al bellissimo
Festival Serpente Aureo di Offida (Ascoli Piceno).
Con La strada i Giardini dell’Arte hanno deciso di sperimentare un linguaggio nuovo e unico nel suo genere, ottenendo grande successo.
Di che cosa parla La strada?
La strada è una piccola avventura, ma grande quanto la vita. Ha la
semplice armonia melodica di una fiaba e la malinconica fragilità che la abita non è mai stata tanto dolce e luminosa. È la storia dell’incontro – solo apparentemente casuale – fra due creature che non hanno niente in comune. Il perdurare della loro convivenza, però, attraverso una serie di avventure e di incontri, cambierà un rapporto assurdo e inutile in una magica e invisibile trasformazione, operata dall’uno sull’altra secondo disegno provvidenziale.
Si tratta di uno spettacolo molto diverso dai successi che hanno segnato la storia dei Giardini dell’Arte. Com’è nata l’idea di metterlo in scena?
L’idea è nata qualche anno fa da Aldo Innocenti, con il quale abbiamo fondato i Giardini dell’Arte nell’ormai lontano 2006. All’inizio io ero un po’ intimorito ma poi, durante la pandemia, ho rivisto il film e, riscoprendone la bellezza, ho deciso di iniziare una ricerca approfondita, prima su Fellini e poi su La strada. Piano piano, me sono innamorato, per la grande poesia dei personaggi (Gelsomina prima di tutti, ma anche il matto, che sembra catapultato sulla Terra con il solo scopo di portare il bene) e per la capacità di far rivivere un tempo unico e speciale che sento molto mio, nonostante io sia nato dieci anni dopo l’uscita del film. Così, l’innamoramento mi ha convito a portarlo in scena, con inevitabile pudore e dopo due anni pieni di notti insonni. Però ero sicuro che La strada fosse nelle corde della compagnia e che ci avrebbe fatto crescere, perché è un testo che riesce a trascinare il pubblico dentro emozioni forti e bellissime, che è ciò che cerchiamo di fare in ogni nostro spettacolo.
Come definiresti il linguaggio scenico di questo spettacolo?
Il lavoro sul linguaggio è stato molto diverso dal solito. Nel teatro classico, a cui siamo abituati, i sentimenti arrivano in scena guidati dalla parola, mentre in questo caso abbiamo sperimentato un linguaggio che mette al centro la mimica: una scelta obbligata dal testo, ma che ci ha piacevolmente sorpreso, sia nella costruzione dei personaggi che nel risultato finale. Gli attori della compagnia sono stati bravissimi a cimentarsi in questo nuovo linguaggio e l’inserimento di altri interpreti, più abituati a dinamiche sceniche di questo tipo, ha arricchito tantissimo lo spettacolo. Oltre ai membri storici dei Giardini dell’Arte, infatti, nel cast ci sono tanti altri attori con cui c’è stato subito un grande affiatamento, preziosissimo in scena.
Un ruolo fondamentale l’ha rivestito anche l’aspetto musicale: il maestro Marco Simoni ha composto le musiche originali e rielaborato la colonna sonora del film di Nino Rota che è meravigliosa, soprattutto nel tema di Gelsomina.
Com’è stato confrontarsi con un testo di Fellini, Flaiano e Pinelli? L’hai vissuto come intoccabile o le tue scelte registiche hanno apportato qualcosa di diverso? Hai ripreso qualcosa anche dal film?
All’inizio non è stato facile perché, come spesso accade, si ha paura di distorcere la verità che gli autori hanno voluto raccontarci. Il pensiero andava spesso a Fellini, che intanto continuavo a studiare. Alla fine, mi sono convinto che fosse sì importante rimanere fedele al testo fino in fondo nelle sue dinamiche ed evoluzioni, ma anche che esistesse lo spazio per aggiungere qualcosa di mio, purché fosse coerente e rispettoso dell’originale. Così, ho deciso di sviluppare quattro personaggi – i circensi, che nel film hanno un ruolo molto marginale – creando una sceneggiatura tutta mia all’interno della storia. Nonostante i dubbi fossero tanti, ora posso dire che queste tre scene hanno arricchito lo spettacolo con leggerezza e ilarità, e penso proprio che Fellini ne sarebbe stato contento.
Lo spettacolo è stato accolto in modo molto positivo dal pubblico. Qual è stata la chiave del successo, secondo te?
Le chiavi sono più di una. Innanzitutto, la potenza poetica del testo iniziale, ma anche l’inserimento di una parte divertente come quella dei circensi, di cui abbiamo appena parlato: l’alternarsi fra il divertimento e il dramma ha aiutato lo spettatore a vivere la storia con maggiore intensità e passione. E così hanno fatto anche altre scelte registiche. Ad esempio, quella di far rivivere l’anima di Gelsomina attraverso la danza in alcuni momenti speciali, rendendoli lirici.
Un altro elemento che è piaciuto molto al pubblico è stato quello musicale, in particolare le due canzoni interpretate dal vivo, frutto di un’idea nata per puro caso dall’ascolto di questi due brani. E poi, il finale: l’ultima scena racconta la morte di Gelsomina, la disperazione di Zampanò e l’omaggio di tutti i personaggi alla protagonista attraverso un gesto tipico delle sue esibizioni. Siamo riusciti a trasmettere al pubblico la stessa forza poetica del film, ed è qui che sta il nostro più grande successo.