Quest’anno il Teatro delle Bambole di Bari conta Venti Anni di attività ed è in pieno fermento e evoluzione. Fondata dal regista e attore Andrea Cramarossa nel 2003, la compagnia porta avanti un percorso sperimentale di approccio all’arte drammatica mediante l’uso e la conoscenza del suono. Vanta un repertorio interessante, che vede protagonisti nomi del teatro a me molto cari, come Jean Genet, Sarah Kane, Fëdor Michajlovič Dostoevskij, giusto per citarne alcuni. La produzione comprende anche spettacoli di Teatro Ragazzi con focus sulle tematiche dell’Educazione Ambientale.
Dal 17 al 19 febbraio 2023 è andato in scena lo spettacolo La Mite presso il Teatro Linguaggicreativi di Milano. Ispirato all’omonimo testo di Fëdor Michajlovič Dostoevskij, vede Andrea Cramarossa alla regia, adattamento del testo e allestimento e, Federico Gobbi – figura artistica eclettica che opera come attore, organizzatore teatrale, grafico e Art Director – all’interpretazione. La Mite di Dostoevskij è un testo intriso d’attualità (passata e presente) e di carica autobiografica. Crea un filo conduttore con altri testi dell’autore russo, ma anche un collegamento tematico con argomenti già affrontati dal Teatro delle Bambole.
Un uomo è avvolto nel buio della scena, ci dà le spalle, si nasconde: si vergogna? Forse.
Seduto in un angolo di fronte a una sedia vuota, è in preda a un delirio di pensieri e riflessioni, dubbi e ossessioni, dentro un silenzio assordante. Alle sue spalle si scorge la statuetta di una madonna. Quella madonna la cui immagine sacra nel 1876 era tra le mani di una giovane sarta che si era buttata giù dal quarto piano in una notizia di cronaca di Pietroburgo, di cui a narrare è lo stesso Dostoevskij nel Diario di uno scrittore. Si parlava di “un suicidio mite e umile”.
Colpisce un’esclamazione pronunciata dal protagonista – il proprietario di un banco di pegni – “Prendete nota di tutto questo”, come a volerci rendere testimoni e spett-attori di quanto accaduto a sua moglie, La Mite, appunto.
Ma cosa è accaduto a sua moglie?
Il racconto è un dramma psicologico e comincia dalla fine: è come un giallo che ricostruisce i fatti, attraverso la mente confusa di un tipico “uomo dal sottosuolo” di tipo dostoevskiano.
Questo uomo (Federico Gobbi) parla con frenesia, quasi senza prendere fiato, si pavoneggia o si autodistrugge, si confessa e si discolpa, si contraddice, è insonne, cerca la verità: una verità che forse già conosce, ma che fa fatica ad ammettere. La gestualità e il corpo seguono le inflessioni vocali, come in un solfeggio verbale che ha ritmi da capogiro. Come una tarantola velenosa, l’uomo deve aver “morso” sua moglie, spingendola in un vortice di frustrazione psichica, di pressione sociale e psicologica, vietandole persino di uscire – “non aveva il diritto di uscire di casa senza di me”- dice.
L’esorcismo dal male che ha creato, è paradossalmente la sua stessa condanna. La scena, dentro cui sembra essere letteralmente inchiodato, è diventata la condizione della sua esistenza: non c’è via d’uscita al suo labirinto di tormenti. I livelli da cui si palesa o si nasconde, si abbassano o si alzano, mentre la voce si moltiplica in allucinazioni sonore. L’autoconvinzione e autocompiacimento, uniti a una buona dose di consapevolezza, sfociano in un turbine soffocante di risate da sit com, come se fosse sua moglie stessa a ridere dall’alto, non più per delicatezza, ma per de-riderlo.
Forse è solo un io colpevole che si moltiplica e che si frammenta: l’uso delle luci nello spettacolo isola frammenti di corpo, spezzandolo e a volte rendendolo doppio, per esempio quando “l’uomo dal sottosuolo” sembra parlare con la sua ombra. Racconta l’episodio in cui – dopo anni di evidente e inconsapevole pressione psicologica da lui esercitata su sua moglie – la Mite gli abbia puntato una rivoltella contro, mentre lui sembrava dormire, ma senza mai premere il grilletto – in realtà era sveglio e aveva visto tutto, ma era rimasto in silenzio, per poi punirla nei giorni a venire, fino a dichiararle il suo amore in maniera prepotente. Il colpo da quella rivoltella posata sul tavolo, è poi partito sul serio: la moglie si è buttata dal balcone, proprio come quella giovane sarta nel 1876 a Pietroburgo.
“Guardavo e non vedevo niente?” si chiede l’uomo “Per cosa è morta? L’interrogativo rimane. Il punto è, sono arrivato tardi”.
Toccante il finale: dietro il paravento sul backdrop, c’è il corpicino morto della giovane donna, rimasto intatto. L’unico modo per raggiungerla è indossare le candide scarpe della povera moglie, che restano in scena per tutto il tempo, come un prolungamento del suo corpo.
La regia e l’adattamento di Andrea Cramarossa hanno avuto l’abilità di rendere immediatamente intellegibile e intrigante il testo, attuale e moderno, pur mantenendo una messa in scena tradizionale. Notevole e coinvolgente l’interpretazione di Federico Gobbi.
All’uscita dalla sala sembra aleggiare ancora lo spirito di una presenza-assenza che ci osserva, come coinvolti in un trip onirico dal gusto macabro, ma dotato di una buona dose di tenerezza e delicatezza.
Una sensazione mite.
Lavinia Laura Morisco