Consensi e applausi anche al Teatro Argentina di Roma (repliche fino al 12 febbraio) per Chi ha paura di Virginia Woolf? Di Edward Albee diretto da Antonio Latella con un ottimo quartetto di attori composto da Sonia Bergamasco e Vinicio Marchioni coadiuvati dai giovani Paola Giannini e Ludovico Fededegni.
Il regista partenopeo, che lavora sulla traduzione del testo di Monica Capuani e dramaturg di Linda Dalisi, torna a confrontarsi con un classico della drammaturgia americana, dopo Un tram che si chiama desiderio, Francamente me ne infischio, La Valle dell’Eden, tutti testi forti nonché consacrati da celeberrime pellicole cinematografiche della Hollywood dei tempi d’oro.
Non è molto diversa la vicenda di Chi ha paura di Virginia Woolf? Di Edward Albee, che ha debuttato nel 1958 a Broadway per diventare nel 1966 la pellicola di esordio cinematografico di Mike Nichols (che ha sempre scelto temi difficili e provocatori, vedi Conoscenza carnale, ma anche il più recente Closer) affidando a due mostri sacri del cinema, Elizabeth Taylor e Richard Burton, i ruoli di Martha e George, due coniugi di mezza età, logorati dalla noia e dall’insoddisfazione.
Lei, qualche anno in più di lui, è la figlia del potente rettore del college dove lui insegna storia, senza essere riuscito a fare carriera. È notte fonda quando in casa arrivano i giovani Nick, un rampante collega di lui del dipartimento di biologia appena arrivato al college, e la fragile moglie Honey. La giovane coppia, diventerà non solo spettatrice, ma anche vittima dell’ennesimo duello senza esclusioni di colpi fra Martha e George. Comincia infatti una lunga, quasi eterna notte fra fiumi di alcool e sesso, condita da inaudita violenza verbale. Tutto verte intorno alla potenza della parola, distruttiva e manipolatrice in un inarrestabile climax: un duello, l’ennesimo, fra Martha e George che si sfidano a suon di parole taglienti, di cattiverie e di recriminazioni, di invenzioni di ogni genere (perfino un finto figlio fatto morire in un bizzarro quanto paradossale incidente automobilistico), rinfacciandosi l’uno contro l’altro anni di fallimenti e di debolezze, scarnificandosi a vicenda.
In scena un vero e proprio disagio emotivo ed esistenziale, la necessità di Martha e George di sfuggire alla noia anche a costo della reciproca distruzione e umiliazione attraverso la forza eversiva del linguaggio, usata come arma efferata per attaccare e distruggere l’individuo “per attaccare e ridurre a brandelli l’involucro – scrive Latella nelle note di regia – in cui ciascuno di noi nasconde la propria personalità e le proprie debolezze“.
Alla fine, dopo una notte intensa fatta di feroci violenze verbali, lanci di scarpe, gravidanze isteriche, matrimoni problematici e tradimenti incompiuti, tutti escono sconfitti senza la possibilità di poter diventare migliori. La giovane coppia fuggirà via ferita e sconvolta dalla serata e i due padroni di casa resteranno l’uno accanto all’altro, certamente pronti per il prossimo, ennesimo ed estenuante round della loro guerra fra i sessi. Ma qualcosa per Martha cambia visto che è costretta ad ammettere di essere lei ad avere paura di Virginia Woolf, come si interroga il motivetto musicale suonato dall’inizio della pièce.
“La Woolf è presente nei due protagonisti che fanno da specchio alla giovane coppia scelta come sacrificio di questo violentissimo e disperato amore, questo: “jeu de massacre” – ricorda Latella – La Woolf è presente anche in una idea di narrazione che riguarda lo stesso Albee: “Ogni volta che entra la morte, bisogna inventare, mentire, ricostruire. La morte la puoi vincere solo con l’invenzione”. Ed è proprio quello che fa fare Albee ai suoi protagonisti, prende spunto da questa frase della Woolf e porta questa coppia, ormai morente, a inventare per ricrearsi, per restare in vita, a scegliere di inventare un figlio mai esistito, ed è spiazzante che lo faccia proprio lui che fu adottato. Bisogna scegliere di spiazzare la morte, di vincere la depressione, la paura, forse anche di anticiparla proprio come fece la grande Virginia Woolf”.
Diversamente rispetto ad altre numerose occasioni, il confronto con le utopie e il sogno americano (spezzato) per Latella parte da un approccio molto più cinematografico, ma soprattutto di piena adesione e rispetto del testo che viene manipolato pochissimo per lasciare poco spazio alla sua personale invenzione, riservandosi solo un momento onirico, con l’ingresso in scena di Honey con una enorme testa di coniglio. “Per me comincia una nuova avventura – continua il regista nelle note di sala – un testo realistico, ma che diventa visionario per la potenza del linguaggio, per la maniacalità della punteggiatura e per la visionarietà, dovuta ai fumi dell’alcool e alle vertiginose risate che divorano e fagocitano i protagonisti di questo testo”.
Al centro della pièce, un impegnativo lavoro per attori (lungo ben tre ore) restano infatti quasi ed esclusivamente gli attori in tutta la lo maestria e la loro abilità, “cast non ovvio, non scontato – ricorda Latella – un cast che possa spiazzare e aggiungere potenza a quella che spesso viene sintetizzata come una notturna storia di sesso ed alcool”.
Mattatori della scena sono una sorprendente Sonia Bergamasco, violenta, feroce Martha, donna dalle mille personalità, sarcastica e seducente, aggressiva e manipolatrice accanto a un ottimo Vinicio Marchioni (già scelto da Latella dieci anni fa per Un tram che si chiama desiderio), un George forse più compassato e freddo nella sua frenesia meticolosamente impegnato nell’ennesimo duello con la moglie, umiliato pubblicamente per la sua vera o presunta incapacità.
Applausi anche ai giovani Ludovico Fededegni, un prestante, rampante e sicuro Nick, e Paola Giannini, tenera e fragile Honey.
Le scene di Annalisa Zaccheria sorprendono all’apertura del sipario creando uno spazio chiuso da un lungo e alto drappo di colore verde: al centro, pochi e funzionali oggetti, una poltrona, qualche lampada, dei gatti di porcellana sul proscenio, un armadio che funge da bar e da spazio esterno, uno sgabello musicale, un pianoforte al centro della scena, che verrà suonato, utilizzato come piano di tentato tradimento, poi smontato.
I costumi di Graziella Pepe sono proposti in tessuti fluidi e velluti, tagli che vanno dagli anni sessanta agli anni settanta, ma ravvivati da un tocco di modernità, eleganti nella loro semplicità. Uno spettacolo tutto da ammirare per la maestria degli attori che animano di nuova linfa vitale un testo che ha svelato tutta la maschera di falsità e convenzioni sociali dell’America degli anni Sessanta. In scena fino al 12 febbraio a Roma.
Fabiana Raponi