Un’immagine bucolica si presenta allo spettatore all’apertura del sipario. Un maestoso ulivo ricama con le sue fronde l’azzurro cielo siciliano, intorno ceste di vimini per la raccolta delle olive. È la terra di Mazzarò, e tanta altra a perdita d’occhio, e ancora altra da attraversare in giorni di cammino, e il viandante che procede e chiede di chi sia quella terra, sempre si sentirà rispondere “di Mazzarò”.
È egli stesso a raccontare di sé in una narrazione diegetica, riempiendo la scena come sa fare Enrico Guarneri in totale immedesimazione con il personaggio verghiano, trasudando il crudo verismo dell’autore: “Il viandante che andava lungo il Biviere di Lentini, steso là come un pezzo di mare morto, e le stoppie riarse della Piana di Catania, e gli aranci sempre verdi di Francofonte, e i sugheri grigi di Resecone, e i pascoli deserti di Passaneto e di Passanitello, se domandava, per ingannare la noia della lunga strada polverosa …: – Qui di chi è? -, sentiva rispondersi: – di Mazzarò -. E passando vicino a una fattoria grande quanto un paese, coi magazzini che sembrano chiese, e le galline a stormi accoccolate all’ombra del pozzo, e le donne che si mettevano la mano sugli occhi per vedere chi passava: – E qui? – di Mazzarò – … Pareva che Mazzarò fosse disteso tutto grande per quanto era grande la terra, e che gli si camminasse sulla pancia”.
E, tuttavia, Mazzarò è un vinto senza riscatto, un povero arricchitosi lavorando duramente e ingannando il padrone a cui tutto ha sottratto, tranne lo stemma in pietra sul portale del palazzo, simbolo di un’elevazione sociale cui non può aspirare. La roba è l’unica ragione di vita ma non ne gode, investe i denari in altra terra, accumulando averi senza eredi cui destinarli. Avaro e gretto, non beve, non fuma, non gioca e non ha donne, tiranneggia mezzadri e braccianti malpagati, ossessionato dall’ineluttabilità di dover lasciare tutto ciò per cui si è tolto il pane di bocca: “la roba non è di chi l’ha, ma di chi la sa fare e la mantiene”.
Per i cento anni dalla scomparsa di Giovanni Verga, la compagnia Progetto Teatrando, che da anni promuove il patrimonio letterario siciliano, porta in scena alcune novelle delle raccolte “Vita dei Campi” e “Novelle rusticane”, tra cui La roba, con la riscrittura drammaturgica di Micaela Miano nell’allestimento di Guglielmo Ferro.
Pubblicata nel 1880 sulla rivista “La rassegna settimanale”, La roba è stata inserita tre anni dopo nella raccolta “Novelle rusticane”.
Enrico Guarneri, interprete realistico dei personaggi verghiani, è magnifico erede della tradizione drammaturgica siciliana. Incarna interiormente grettezza e disperazione di Mazzarò, estrinsecandone la carica esplosiva con un’immedesimazione struggente, come già nelle scorse stagioni negli acclamati I Malavoglia e Mastro Don Gesualdo. Vigoroso e sprezzante, Guarneri-Mazzarò esprime una summa di sicilianità contadina che vira in espressività musicale nella morbida cadenza catanese.
I tipi umani che costituiscono il contesto di lavoratori e contadini che per un tozzo di pane raccolgono olive, fave, arance sono portati in scena con vivido naturalismo da un cast affiatato ed omogeneo, raccontando desideri, paure, preoccupazioni, angosce esistenziali, nella rappresentazione corale di Giampaolo Romania, Nadia De Luca, Francesca Ferro, Rosario Marco Amato, Elisa Franco, Alessandra Falci, Gianni Fontanarosa, Giuseppe Parisi e Maria Chiara Pappalardo.
La scenografia di Salvo Manciagli, pur minimale, è verosimilmente rurale e arcaica: l’ulivo, i covoni, un carretto, un telone steso fra pali infilzati nel terreno per proteggersi da una pioggia improvvisa. Costumi della Sartoria Pipi Palermo, musiche di Massimiliano Pace.
“Sono i vinti della Sicilia alla fine dell’Ottocento – spiega Guglielmo Ferro nelle note di regia – che, travolti dalla “fiumana del progresso”, non possono fare altro che sopravvivere aggrappandosi ai beni materiali. La “roba” in Verga diventa àncora di salvezza per tutti i derelitti della società, per coloro che lottano a costo della vita pur di non soccombere al “darwinismo sociale” dell’epoca. Nessun vincitore tra i protagonisti delle novelle, solo vinti. Nessuna vera speranza di riscatto ma solo la crudezza della loro miserabile esistenza. Nessun giudizio morale a rassicurare lo spettatore”.
Tania Turnaturi