Verde o giallo. L’invito rivolto agli spettatori, da parte del capo del cerimoniale (un capocomico irriverente), è quello di scegliere tra il testo di colore verde e quello di colore giallo. L’anticipazione di una scelta che giungerà inevitabilmente fra la lettera di colore giallo o verde.
La famiglia Klingenfeld, dell’alta borghesia danese, si riunisce dopo tanto tempo in occasione della celebrazione del compleanno del padre di famiglia Helge. Tornano a trovarlo i suoi tre giovani figli: Christian, Michael, Helene. All’atmosfera ipocritamente briosa degli esordi, succede un gioco al massacro innescato dal figlio maggiore Christian che sconcertato dall’atteggiamento patetico della compagnia, “in vino veritas”, rigurgita traumi e pene di un inferno infantile che ha lasciato indelebilmente i segni di un disagio psichico protrattosi negli anni, con tanto di cicatrici su di un fisico provato dalla violazione. Il discorso rivelatore ne innesca di susseguenti, in un andirivieni frastornato e frastornante di rivelazioni scioccanti.
Davanti agli attori che interpretano con sentita partecipazione questo personalissimo e denso adattamento da David Eldridge, ad opera del regista Marco Lorenzi e di Lorenzo Di Iacova, s’innalza un velo, a ricoprire l’intera area scenica. Gli attori recitano dietro questo velo e di fronte una cinepresa su cavalletto che spesso si muove per anticipare o rincorrere gli attori, in diversi piani-sequenza.
Cosicché, da proiettare, in un intricato sistema di proiezione e retro-proiezione, quelle immagini stesse filmate in diretta, disposte sul velo che sembra frapporsi fra la recita, quindi il teatro, e il pubblico. L’idea è audace e gradualmente, in maniera composita, si dispone di elementi sempre più interessanti e pregni di significanza. Di tanto in tanto, uno degli interpreti, nelle fasi in cui si avverte il bisogno di rivolgersi a tutti – anche e soprattutto agli spettatori, pertanto – fuoriesce dal retro del velo sul palco per disporsi davanti allo stesso, mettendosi a nudo al cospetto di un pubblico tanto spiazzato, quanto inorridito dall’incalzare di drammi privati, gettati in pasto con inusitata veemenza.
Il bisogno di esporre la verità, nasce sostanzialmente dal bisogno di farsi coraggio, perché la coscienza a forza di gridare deve liberarsi di quel peso umiliante. Se inizialmente, l’adattamento può risultare stucchevole, anche nel modo in cui gli attori ci tengono con una certa magniloquenza interpretativa a dare mostra del grande lavoro operato in coesione con il vocal coach Bruno De Franceschi, a poco a poco la recita si smaschera da sé, ponendo in essere il vero scopo della rappresentazione, ovverosia innescare la farsa, per inquadrare meglio poi la tragedia. E quando sopraggiunge imperiosamente il dramma, non si può non rimanere scossi. Se ne esce inevitabilmente provati.
Ed è proprio quando quella verità sanamente ricercata invano per lunghi anni esplode all’infuori, che il rapporto di ascolto e partecipazione emotiva sale di tono e di livello. Le invenzioni, connaturate da interiezioni goliardiche tra teatro e cinema (e oltre i confini stessi di definizione delle singole forme artistiche) si moltiplicano copiose, genialmente, in un curioso rincorrersi di riferimenti più e meno espliciti e divagazioni del tutto personali. Il cinema che prende il proprio posto sul palcoscenico, nel tentativo d’inscenare un dramma in maniera spoglia, restituendone la verità del dolore, non può non far pensare al punto più estremo degli esperimenti del Dogma danese (da cui ha poi preso forma lo stesso film Festen), il Dogville di Lars Von Trier, anche citato in un manifesto scenografico (The Kingdom).
Il cinema che astrae in una riflessione interna al senso stesso della rappresentazione scenica, secondo un’ottica quasi pirandelliana nella genesi tra testo ed elementi della rappresentazione drammaturgica, nella seconda parte di uno spettacolo della bellezza di circa due ore, sposta i piani di fruizione in un faccia a faccia con l’inconscio dei personaggi più segnati che rimanda chiaramente all’ Inland Empire di David Lynch.
La cinepresa che scruta dentro e i piani della realtà che intersecati si confondono, secondo il cinema dentro al cinema che è poi il teatro, la scenografia, la rappresentazione della finzione ultima. Quindi l’orrore. La sensazione di un crescendo violento e potenzialmente, nei tratti, omicida. Un orrore che prende forma dall’interno, dal non detto, dal sottaciuto, dal soggiaciuto. I richiami al soprannaturale permeano il racconto in diverse forme e secondo diverse influenze, a cominciare dalla presenza dello spirito della sorella di Christian, l’artista ferito che si ribella al patriarcato, alla parca violenza sottaciuta, alla vergogna del colpevole silenzio.
Uno spirito che interviene e si frappone, a secondo delle istantanee, tra una situazione e l’altra, e che nell’abbigliamento di un k-way giallo canarino con cappuccio, rimanda a vacue icone della cinematografia horror. Così come, nel corso della prima sconvolgente confessione di Christian, con quel suo reiterato richiamare dal tintinnare del cucchiaino sul bicchiere di cristallo (uno dei suoni che torna più volte a tormentare tutti, nessuno escluso, un po’ come la sconvolgente versione della stupenda Song to the Siren, prima nell’originale Tim Buckley, poi nella bellissima versione di This Mortal Coil), i primi e primissimi piani che vediamo alle sue spalle, sul grande velo e di fronte alla implacabile testimonianza visiva della macchina da presa, denotano il capovolgersi smaccato e imbarazzante, smorfioso, dei loro volti. Si piomba persino dalle parti di un Bergman.
Siamo dalle parti di Persona (o forse L’ora del lupo). Si ha la esplicita sensazione di un crocevia, un volgersi di sguardi a un passo dalla sconcertante verità. Da lì lo spettacolo cambia pelle ripetutamente, fino a dare quasi la sensazione di non voler terminare più. E noi con loro. Provati eppure parte ormai del dramma.
Presi in parte, incastrati nelle tenaglie. Si ha la netta sensazione, sballottante, di ritrovarsi costantemente da un’area all’altra della decapitazione degli ideali (ce ne sono mai stati, in fin dei conti in questa famiglia?). Non ci si può soffermare nell’accoglimento della nuova situazione che ci si ritrova rapidamente dentro un’altra. Gli interpreti si muovono dietro e davanti (il velo), sopra e sotto il palco. Fin quasi a confondersi con il pubblico. Con un pubblico confuso, colpito da più pugni nello stomaco. Pugni che vibrano viscere. Le paure, le fragilità, persino la tenerezza e l’ironia degli stati d’animo di passaggio, ne testimoniano il loro reale scopo degli autori. Non lasciare tregua.
Ed è nel doppio piano di realtà offerto alla visione totale dell’insieme delle componenti che matura distintamente la sua intrinseca forza destabilizzante. Pur con tutte le sue volute forzature drammaturgiche e le smascheranti ottusità poetiche. Sono le ipocrisie dettate con amara e incostante verità. Inconcludente, perché in fin dei conti la vita è una larga rappresentazione scenica, redatta in maschere da balletto, all’interno della quale si giocano dei ruoli imposti e/o auto-imposti, limitanti. Il gioco indisposto è una tortura ma val la pena giocarlo, montarlo.
Solo così, può finire tutto, sempre e comunque, nella palesata vocazione al brindisi.
Federico Mattioni