Scritto nel 1955 e ritenuto uno dei più significativi testi della drammaturgia americana del Novecento, affronta il tema, allora attuale, dell’immigrazione italiana negli Stati Uniti, inseguendo il sogno americano di benessere vagheggiato da milioni di italiani fuggiti dalla povertà del nostro meridione, con estenuanti viaggi nelle stive dei piroscafi verso la mitica New York.
Arthur Miller mette a fuoco le difficoltà e le resistenze degli immigrati all’integrazione e all’accettazione di usi e costumi ritenuti troppo permissivi, ma è anche il dramma di una insana passione. Il suo interesse per questo tema era scaturito da un fatto di cronaca nera che l’aveva turbato. In Italia fu messo in scena nel 1958 da Luchino Visconti, nel 1962 Sidney Lumet diresse il film con Raf Vallone.
Un’aura di tragedia incombe dall’inizio quando, sulle note di una canzone siciliana in lontananza, entra l’avvocato Alfieri (un incisivo Michele Nani) che racconta l’epilogo della morte ineluttabile di Eddie Carbone e tutta la rappresentazione diventa un lungo flashback.
Nel quartiere italo-americano intorno al ponte di Brooklyn, il portuale Eddie Carbone e la moglie Beatrice ospitano la nipote orfana Catherine che l’uomo coccola e protegge, immaginando per lei un roseo futuro. Dall’Italia arrivano immigrati clandestinamente i fratelli Marco e Rodolfo, cugini di Beatrice e bisogna nasconderli. Uno ha lasciato moglie e figli piccoli, l’altro è giovane, biondo e di temperamento artistico, Catherine se ne innamora e medita di sposarlo. Ciò è insopportabile per Eddie che ha sviluppato un’ossessione morbosa per la giovinetta: dapprima tenta di denigrare il ragazzo per l’abilità nei lavori femminili e le fattezze delicate di biondino, poi lo accusa di mirare alla cittadinanza americana. Quando lo denuncia insieme al fratello all’ufficio immigrazione, tradendo anche il patto che lega la comunità, resterà vittima dell’ira vendicatrice di Marco.
A nulla valgono gli incessanti richiami dell’avvocato Alfieri alla Legge, cui ogni uomo deve sentirsi soggetto e a cui appellarsi per ottenere giustizia.
Un affresco sociale che vira al dramma in un interno, con l’avvocato Alfieri che assume la funzione del coro delle tragedie greche, narrando la vicenda e ammonendo, inascoltato fino al compimento del destino, evocato ma non rappresentato, con Marco che impugna un grosso gancio avvicinandosi a Eddie che si gira verso il pubblico.
Massimo Popolizio torna sul palcoscenico dell’Argentina con questo testo nella traduzione di Masolino D’Amico, impostando una regia di taglio cinematografico molto ritmata, col protagonista sempre in primo piano e numerosi fermo immagine ritmati dallo spegnimento delle luci, che enfatizza l’azione sottraendola alla vista oppure consente un rapido cambio scena per una nuova sequenza (luci di Gianni Pollini).
Lo stesso Popolizio nel tratteggiare Eddie Carbone si distacca dal realismo verista di Miller, conferendogli una connotazione un po’ grottesca e caricaturale, un carattere sopra le righe destinato a priori a costruire un antefatto in sintonia con l’epilogo, noto allo spettatore fin dall’inizio. Anche la voce contribuisce a dare questa coloritura al personaggio, con gorgheggi enfatizzati e quasi infantili e intonazioni a tratti affettate, che sovvertono l’idea di uomo rude che, forse, si annida nell’immaginario.
Il ricorso al dialetto siciliano stretto di Marco (un bravissimo e credibile Raffaele Esposito) e Rodolfo (Lorenzo Grilli è un autentico performer che salta sui tavoli e canta a cappella brani d’opera) attribuisce molta veridicità ai dialoghi e alle dinamiche, ma potrebbe rendere ostica la comprensione. Ben amalgamato il resto del cast, con Valentina Sperlì (Beatrice), Gaja Masciale (Catherine), Felice Montervino (Tony), Marco Mavaracchio e Gabriele Brunelli (i poliziotti), Marco Parlà (Louis).
La scena di Marco Rossi è essenziale all’interno dell’appartamento, sul quale incombe la sagoma metallica di un ponte: un tavole, due credenze che si fronteggiano e si muovono all’occorrenza delimitando lo spazio angusto della casa rispetto alle dimensioni del palcoscenico, una radio che Catherine accende a tutto volume ballando vorticosamente, un telefono che scende dall’alto. Suono di Alessandro Saviozzi.
Scrive Massimo Popolizio “Tutta l’azione è un lungo flash-back, Eddie Carbone, il protagonista, entra in scena quando tutto il pubblico già sa che è morto. Per me è una magnifica occasione per mettere in scena un testo che chiaramente assomiglia molto ad una sceneggiatura cinematografica, e che, come tale, ha bisogno di primi, secondi piani e campi lunghi. Alla luce di tutto il materiale che questo testo ha potuto generare dal 1955 (data della sua prima rappresentazione) ad oggi, cioè film, fotografie, serie televisive credo possa essere interessante e “divertente” una versione teatrale che tenga presente tutti questi “figli”. Una grande storia… raccontata come un film… ma a teatro. Con la recitazione che il teatro richiede, con i ritmi di una serie e con le musiche di un film”.
Tania Turnaturi