Le dicotomie pirandelliane su essere e apparire, lucidità e follia lasciano lo spettatore col dubbio circa la verità che sta dietro la realtà delle cose. L’essere umano è come egli si percepisce o come gli altri lo vedono? L’autentica natura delle cose viene camuffata dalla maschera grottesca delle convenzioni che produce sofferenza, ma può anche approdare alla catarsi?
In scena per la prima volta nel 1917, Così è (se vi pare), già tratto dalla novella “La signora Frola e il signor Ponza, suo genero”, da sempre tra i testi più rappresentati e più emblematici del pensiero del drammaturgo di Girgenti, si fonda sull’assioma che la verità oggettiva non esiste.
“È mia vecchia abitudine dare udienza, ogni domenica mattina, ai personaggi delle mie future novelle”. Così a sipario chiuso con la voce di Geppy Gleijeses (che cura la regia) suona l’incipit della novella pirandelliana “La tragedia di un personaggio” che rivela l’intuizione di Giovanni Macchia del “cannocchiale rovesciato” che commentava la visione di Pirandello dell’uomo e del mondo: “Le cose più vicine, vissute, torturanti, furono viste con il binocolo rovesciato: da quella distanza che ne permettesse la meditazione assorta o l’ironia o addirittura il grottesco”.
La rappresentazione inizia al buio, con una sequenza di sedie sopra le quali si illuminano otto ologrammi tridimensionali (videoartist Michelangelo Bastiani) alti 60 centimetri dei personaggi, coro vociante che si affanna a interrogarsi su quale sia la verità, suscitando qualche perplessità per la durata. La moglie Amalia del consigliere Agazzi e la figlia Dina rivelano alla signora Sirelli e ad altri amici di non essere state ricevute dalla nuova vicina signora Frola, che vive da sola mentre la figlia e il marito signor Ponza abitano in periferia, essendosi trasferiti dalla Marsica dopo il terremoto. Il genero lavora in Prefettura come collaboratore di Agazzi, ma nessuno ha visto la moglie e perfino la madre deve appostarsi sotto il balcone sperando che si affacci per comunicare con dei biglietti calati col paniere.
Solo all’ingresso della Signora Frola con la sua lacerante verità, quelle figurine spariranno e in scena ci saranno gli attori reali con la loro ridda di ipotesi. La signora Frola dichiara di essere la madre della moglie del signor Ponza, mentre il genero sostiene di essersi risposato essendo la prima moglie deceduta nel terremoto.
Mentre tutti si affannano ipotizzando pruriginose illazioni muovendosi tra pannelli trasparenti e a specchio, il consigliere, vestitosi d’autorità, chiede al Prefetto di intervenire, costringendo il subalterno a confrontare la sua versione con quella della suocera, per far emergere la verità.
Il signor Ponza dichiara di dover tenere lontana la suocera impazzita di dolore, che rifiuta di accettare la morte della figlia e la ritiene ancora viva. La signora, viceversa, sostiene che il genero fu travolto da una tale frenesia d’amore per la sposa da metterne in pericolo la stabilità emotiva e divenne necessario ricoverarla. Ritornata a casa in salute, il marito non la riconobbe e pretese un nuovo matrimonio, e da allora la tiene chiusa in casa per paura di perdere anche lei.
Entrambe verosimili, le due versioni sono incompatibili, ma i documenti sono andati persi nel terremoto e la verità oggettiva non può essere appurata.
Il pettegolezzo e il cicaleccio della borghesia di provincia vengono stigmatizzati con beffardo umorismo dal cognato del consigliere Ludovico Laudisi, equidistante e indifferente alla spasmodica ricerca di riscontri, consapevole che la realtà è soggettiva e ha tante sfaccettature. L’arrivo della figlia/moglie suggella l’ineluttabilità del dubbio: “Per me, io sono colei che mi si crede’’ dirà, e Laudisi conclude ridendo “Ed ecco, o signori, come parla la verità…Siete contenti?”.
La signora Frola di Milena Vukotic è fragile e protettiva, sperduta e tenera di fronte alla disperata sofferenza del genero, un Gianluca Ferrato ritroso e imbarazzato davanti a un dilemma insolubile. Pino Micol nei panni di Laudisi sembra divertirsi con fare sornione, osservando da lontano il turbinoso andirivieni. Esuberante e vagamente macchiettistico il resto del cast: Massimo Lello (Consigliere Agazzi), Marco Prosperini (Signor Prefetto), Maria Rosaria Carli (Signora Agazzi), Roberta Rosignoli (Signora Cini), Antonio Sarasso (Signor Sirelli), Stefania Barca (Signora Sirelli), Walter Cerrotta (Commissario Centuri), Vicky Catalano (Signora Nenni), Giulia Paoletti (Dina).
La scena di Roberto Crea è popolata da una serie di pannelli trasparenti che tracciano una sorta di labirinto, intorno ai quali si agitano i personaggi alla ricerca della verità, deformati dalla luce rifratta, anch’essi simulacri di un’essenza che sfugge a una omologazione, in principio ologrammi poi ectoplasmi, sempre e comunque maschere di una realtà che vira dalla tragedia al grottesco (light designer di Francesco Grieco). I bei costumi di Chiara Donato suggeriscono atmosfere Anni Venti. Le musiche sincopate di Teho Teardo accentuano la sensazione di crescente drammaticità.
Scrive nelle note il regista: “Un labirinto di specchi, come in un terribile parco di divertimenti. O forse come ne “La signora di Shangai” di Orson Welles. Da quegli specchi piuma, che se illuminati anteriormente sono specchianti, ma se retroilluminati diventano vetro trasparente, scompaiono e a volte compaiono la signora Frola, il signor Ponza e la signora Ponza. Laudisi con quegli specchi gioca e spaventa il cameriere, perché lui sa che la verità assoluta non esiste, che ognuno ne ha una propria, che è vero solo quello che crediamo sia vero. Il resto è sogno, incubo, illusione. Specchi e fantasmi, quelli che popolano da sempre e per sempre la mente di Luigi Pirandello. I filtri, tutti i filtri, attenuano la fisicità dei protagonisti, ma non la sofferenza. Il dolore è dolore vero. E senza remissione”.
Tania Turnaturi