Pascal Rambert
Prima
nuova produzione
Piccolo Teatro di Milano
Dal 5 maggio, gli appuntamenti di Oltre la scena
Dal 29 aprile al 28 maggio, al Teatro Grassi, debutta Prima, capitolo di apertura
della trilogia che Pascal Rambert, artista associato del Piccolo, ha pensato
nell’arco di tre stagioni, per raccontare quello che accade in scena e nella vita
Prima, Durante e Dopo la messa in scena di uno spettacolo.
Nuova produzione del Piccolo con structure production e Compagnia Lombardi-
Tiezzi, Prima vede in scena cinque interpreti straordinari: Anna Bonaiuto, Anna
Della Rosa, Marco Foschi, Leda Kreider, Sandro Lombardi.
Le scene sono firmate dallo stesso regista, insieme a Anaïs Romand, che ha
creato anche i costumi; le luci sono di Yves Godin e le musiche di Alexandre
Meyer.
La traduzione è di Chiara Elefante.
Si apre con Prima il trittico teatrale pensato da Pascal Rambert per tre stagioni del Piccolo – le parti successive saranno Durante e Dopo –, nel quale seguiamo le vicende di una compagnia teatrale impegnata nella messa in scena di un testo ispirato alla Battaglia di San Romano di Paolo Uccello.
«Quando inizio a scrivere un nuovo testo – spiega Rambert – ancora prima della stesura ha luogo la scelta degli interpreti. Parto sempre da quell’incontro straordinario di voci, corpi, età diverse e differenti energie che una compagnia di attrici e attori rappresenta per me. Per tanti motivi volevo lavorare con Anna Bonaiuto e Sandro Lombardi di cui conosco e apprezzo la carriera, con Marco Foschi, che ha un carisma speciale, con Leda Kreider, incantevole nella sua riservatezza, con Anna
Della Rosa perché ha interpretato tutti i testi che ho allestito in Italia».
Una storia d’amore impossibile, tra una donna matura e un uomo molto più giovane, a propria volta diviso tra due donne; uno spettacolo ispirato al trittico pittorico di Paolo Uccello, criptico come l’universo dei sentimenti; attori e attrici che finiscono per smarrire il confine tra privato e pubblico.
«Come nella vita, anche in teatro, – continua Rambert – esiste un “prima” (le prove), un “durante” (lo spettacolo) e un “dopo” (come la rappresentazione agisce sugli interpreti e sul pubblico). Mi premeva parlare delle conseguenze delle nostre azioni e dei nostri sentimenti, del modo in cui influiamo sugli altri: l’arte del teatro non è nient’altro che questo.
E se è vero che il teatro influenza la vita, è altrettanto vero che il modo in cui un attore dà vita al personaggio che gli viene assegnato è parte di quella grande battaglia – estetica e sentimentale – che si svolge sulle tavole del palcoscenico».
Un piccolo aneddoto personale in apertura di queste brevi righe. Nel marzo 2020, durante la prima ondata della pandemia in Europa, Pascal Rambert e io abbiamo intrapreso un dialogo a distanza, per iscritto, per ragionare insieme, tra mille incertezze, sul futuro della creazione teatrale. Dodici mesi dopo quel primo momento di confronto, mentre faticosamente si stava uscendo dall’emergenza sanitaria, continuando le nostre conversazioni e ipotizzando nuovi progetti comuni a Milano, Pascal (mi sia concesso questo istante di confidenzialità) mi rivelava nel suo caratteristico stile di scrittura: «per l’Italia voglio un progetto originale […] per l’Italia voglio il fuoco la scintilla del desiderio con attori italiani amati qualcosa sul teatro sempre a partire dal teatro perché il teatro è la forma d’arte che è più nel crocevia dei percorsi e la più adatta a cercare la vita». Da un simile
slancio è nata Prima, la parte iniziale del trittico che Rambert ha ideato appositamente per il Piccolo Teatro, in un serrato scambio con attrici e attori italiani. Come si è avuto modo di
sottolineare in questi mesi, la stagione 2022-23 del Piccolo, sviluppata nel segno della “Misura delle cose”, ha dato spazio alla ricerca degli artisti, oggi nevralgica, in margine alla complessa relazione tra teatro, rappresentazione e realtà. Con Prima, nel viluppo dei piani, nella sovrapposizione delle dimensioni, nel precipitare delle citazioni (a partire dal trittico La battaglia di San Romano di Paolo Uccello), il teatro di mutevoli parvenze dell’umano accadere incontra la verità dei corpi e dei loro desideri: è in questo senso che, come ama ripetere Rambert, «bisogna cercare la vita»
Claudio Longhi
A teatro, il flusso della vita
Una conversazione con Pascal Rambert
Estratto dal programma di sala dello spettacolo
Pascal Rambert, da dove nasce l’idea di una trilogia dedicata alle relazioni tra artisti e artiste nel corso della creazione di uno spettacolo? Non parlerei di trilogia ma di trittico: sono pièce indipendenti e non necessariamente devono essere viste in sequenza. L’idea è nata a seguito della proposta di Claudio Longhi di immaginare un progetto distribuito nell’arco di tre stagioni: mi ha incuriosito molto, perché è un’esperienza che non avevo mai fatto in precedenza. In questi giorni, mentre sono in prova con Prima, immagino il
testo successivo: penso ai tre lavori in maniera organica, l’uno scaturisce dal precedente, ma sono autonomi.
Perché la Battaglia di San Romano di Paolo Uccello come pretesto? I miei testi spesso coincidono con delle “battaglie” e non perché sia una mia peculiarità: è il teatro
stesso a basarsi sul conflitto. La prosa occidentale, se pensiamo ai Greci, è la cronaca di battaglie familiari e di lotte politiche; nei miei testi, le persone lottano per la sopravvivenza, per difendere l’amore che provano l’uno per l’altro, per affermare una visione del mondo, per il proprio impegno politico. Quando osservo la Battaglia di San Romano, innanzitutto mi confronto con un trittico (le tre parti del dipinto sono conservate in tre diversi musei, alla National Gallery di Londra, alla Galleria degli Uffizi di Firenze, al Musée du Louvre di Parigi. Per saperne di più, leggi l’articolo di Mauro Minardi in questo stesso programma, ndr) e poi contemplo una immensa bellezza. Lavorando in Italia, è normale aver a che fare, in ogni istante, con la bellezza: accade a Roma, a Firenze, a Venezia, un po’ in tutte le città della penisola. È qualcosa che in altre nazioni non si verifica. Le tavole del trittico si sono proposte ai miei occhi, senza che espressamente lo cercassi, ma ecco che i gruppi dei cavalli, l’organizzazione spaziale dei corpi, nella mia mente, hanno preso la forma di una
raffigurazione contemporanea del concetto di sopraffazione: di sicuro, la pièce che sto scrivendo per raccontare il seguito della vicenda (Durante, ndr) vi farà riferimento.
Sei solito scrivere avendo già in mente gli attori e le attrici che incarneranno i personaggi o li scegli successivamente?
Quando mi dedico a una nuova produzione non ho idee, non voglio averne. Ci sono alcuni
realizzatori di documentari che definiscono a monte i propri progetti, altri arrivano sul posto e si confrontano con la realtà: io appartengo alla schiera di quelli che si misurano con la realtà. Ho incontrato circa una quarantina di attori e attrici italiani, tutti bravissimi. Quindi ho iniziato ad assemblare i corpi, le voci e le personalità: è questo a riempire di vita la pièce. Se allestirò Prima in qualche altra parte del mondo, non sarà più lo stesso spettacolo: se lo dirigerò in Messico, sarà tutto diverso, avrà l’energia di quegli attori, non sarà più la storia che conosciamo. Per dire che tutte le mie pièce sono fatte dell’identità degli interpreti per cui le scrivo; intendiamoci, non la loro reale identità: ciò che racconto in Prima non ha niente a che vedere con la vera vita di Anna Bonaiuto o di Sandro Lombardi. Sicuramente possiede una traccia di loro, di un’altra esistenza, di un altro “loro stessi”, è la virtù dell’arte. Quando scrivo, è per loro, per Foschi, Kreider, Della Rosa, e il carattere
della pièce diventa anche la loro identità… Il tema dell’invecchiamento, connesso ai rapporti d’amore fra amanti con forti differenze d’età, è molto presente nel testo. Perché?
Mi capita spesso, in giro per il mondo, di lavorare con attori maturi. Ho diretto produzioni con interpreti giovanissimi, ma adoro collaborare con persone oltre i settant’anni d’età. Trascorrendo tanto tempo insieme, si parla di svariati argomenti. Così, una volta, è capitato che alcuni di loro mi confidassero – parlo di uomini, non so se per le donne sia diverso, ma non credo – che amano guardare le donne, per strada, semplicemente per il piacere estetico di contemplare la bellezza. E allora capita che gli sguardi si incrocino e se anche poi non accade nulla, ci sia una forma di desiderio, che resta sospesa nell’aria… A un dato momento tutto finisce e, sul mercato dell’amore e del desiderio, non si vale più nulla. Queste storie mi hanno portato a riflettere sul fatto che pensiamo sempre di avere vent’anni, ma li abbiamo nella nostra testa, non nello sguardo degli altri.
E per chi ha vent’anni oggi, arriverà il momento di sentire l’artiglio dell’età… Sono situazioni belle da raccontare perché eterne: la poesia mondiale è intrisa d’amore, di amori difficili, di amori che non si realizzano, di amori che sarebbero potuti essere, ma non sono stati… Volevo uscire dal cliché che tutto il cinema degli anni Settanta e Ottanta ci ha proposto, ossia cinquantenni che hanno storie d’amore con ragazze di venticinque anni che li adorano. Quel mondo è finito, è il momento di raccontare nuove storie: volevo offrire a una donna le parole per dire che il corpo è secondario e che l’accendersi della passione può essere assolutamente meraviglioso.
Da dove nasce questo tuo stile così particolare, un flusso di coscienza senza pause né
punteggiatura? Me lo chiedono sempre e non so che cosa rispondere, perché è inciso nel mio corpo, sulla mia pelle: sono fatto così e non so perché. Forse deriva dal fatto che, nella prima parte della vita, ho fatto ogni tipo di esperienza, fino a quando la realtà mi è piombata addosso e la sua energia ha generato in me questo stile di scrittura, che non conosce battute d’arresto, non prevede punti: è la corrente della vita.
Quando dirigo, cerco di mettere in scena il flusso dell’esistenza di persone che parlano tanto, provano desideri molto intensi, non restano stravaccate sul divano a guardare la tv, ma si muovono nei territori del desiderio. Che sensazione ti dà ascoltarti in un’altra lingua?
I miei testi sono tradotti in trentacinque lingue e credo di essermi confrontato, allestendoli
all’estero, con almeno venti di esse. Nel momento in cui preparo uno spettacolo in un altro Paese, non guardo il mio testo, perché già lo conosco. Capisco quando l’attore recita bene o quando invece lo fa male, perché un interprete che non sia a proprio agio sulla scena trasmette quel malessere al corpo. Gli guardo i piedi: se ha una postura scorretta, allora significa che anche l’atteggiamento mentale è errato. Se lavoro in Giappone, guardo il corpo dell’attore giapponese e capisco dove sta il problema; allora ritorno sul testo, riesamino insieme all’attore e al traduttore il particolare che non risultava chiaro e che non è stato capito. Qui accade lo stesso, per quanto l’italiano mi sia più familiare del cantonese, del russo, del tedesco, del finlandese, del danese, che trovo sempre molto ostico. Penso che l’arte del teatro, l’arte della regia in particolare, che si tratti di attori francesi o stranieri, sia un modo di non capirsi: è prevedere un margine d’incertezza. Non spiego mai tutto agli attori, lascio tanti spazi bianchi: chiarire tutto significa uccidere le cose. Bisogna lasciare dei buchi, perché è in quei vuoti, in quelle inquietudini che gli attori sono costretti a inventare, a cercare appigli come chi stia precipitando nel vuoto. L’arte della messa in scena è dare agli attori la possibilità di sentirsi veramente smarriti: solo allora la ricerca può cominciare e l’immaginazione manifestarsi. Un regista che dice tutto uccide gli attori: deve tacere.
Qual è il tuo primo ricordo legato al teatro? Credo non sia esattamente il primo, ma di sicuro è il più importante: è stato quando ho assistito a uno spettacolo di Pina Bausch, 1980 – Ein Stück von Pina Bausch, penso nel 1983. Non avevo mai visto nulla del genere in vita mia vita. Pina Bausch ha esercitato una profonda impressione su di me e ha capovolto totalmente il concetto che avevo di arte performativa. È accaduto lo stesso a tutti giovani della mia generazione: siamo rimasti sconvolti perché abbiamo visto qualcosa in cui si
parlava dell’umano come nessuno mai aveva fatto, con quelle musiche, con quel modo di muoversi, di negare la danza inventando altri movimenti. Prima di lei, la danza era come fare il servizio militare: lei ha liberato la danza da quell’elemento militaresco, si è interessata all’essenza del movimento, qualunque esso fosse, quello del ragazzo che mi sta riprendendo o delle tue dita mentre mi parli. L’incredibile è che tutto questo era sempre stato sotto i nostri occhi, ma, come sempre accade, non ritenevamo interessante quel che avevamo intorno, mentre Pina guardava esattamente a quei dettagli.
Che cosa significa per te essere artista associato del Piccolo Teatro? Sono nato a Nizza e credo di aver visto Arlecchino servitore di due padroni nei primi anni Ottanta, nel teatro della mia città: è stato uno choc assoluto. Così, come facevo sempre, alla fine dello
spettacolo sono andato a incontrare il regista, per parlare, per capire. Strehler allora mi ha detto: «Bravo, vieni a vedermi provare!». Gli ho chiesto: «Come faccio?». E lui: «Vieni a Parigi, all’Odéon». Così ho preso il bus del Partito Comunista, che costava solo cinque franchi, e invece di andare alla Fête de l’Humanité, sono andato al Théâtre de l’Odéon, per assistere alle prove, trovando almeno altre duecento persone alle quali aveva detto la stessa cosa, mentre io credevo di essere il solo… Adoro raccontare questa storia, perché, per me, essere invitato al Piccolo in quanto autore, con le mie parole, e non per allestire Shakespeare o Molière o Ibsen, in questa sala, dove sono stati concepiti spettacoli come Il campiello, mi provoca la stessa sensazione di quando tocco un sociétaire della Comédie-Française (i sociétaire sono gli attori e le attrici che, dopo un periodo di lavoro alla Comédie-Française, vengono nominati membri della Société des Comédiens- Français, fondata nel 1681, ndr): l’emozione di stare, di fatto, toccando Molière.
Sono teatri, il Piccolo, il Teatro di Mosca, dove è nato Il gabbiano, o la Comédie-Française, che possiedono una storia molto forte: sono persino curioso di sapere se le sedie siano le stesse, ma mi hanno detto che sono state rinnovate… Arrivando in uno spazio così saturo di storia, mi pongo molte domande, come regista; motivo per cui la cornice che ho creato, tutta bianca, riproducendovi i caratteristici fori del soffitto, non è casuale: è un dialogo con il palcoscenico e quindi con il passato.
Il monologo di Sandro, che, alla fine, racconta alla madre di quando era piccolo, sessant’anni prima, su quello stesso palcoscenico, con il costume da paggio, mentre intorno a lui ci sono due bambini vestiti da paggi, è la rappresentazione di questa cosa meravigliosa e infinita che è il teatro… I bambini, che vediamo nelle foto in bianco e nero alle pareti del foyer e che sono venuti a vedere gli spettacoli di Strehler, forse adesso sono morti… In altre immagini vediamo Strehler che si rivolge ad altri bambini come oggi io parlo quattro del mio spettacolo… È una cosa commovente, è la vita che ho scelto, la vita del teatro. Vuoi darci qualche anticipazione sul prossimo testo del trittico?
Nella mia mente ho già visto Durante, l’ho immaginata in questi giorni di prova. Penso a una macchina di lusso, a un incidente e c’è un personaggio che muore… ma chissà, forse potrei riportarlo in vita in Dopo…
OLTRE LA SCENA | Prima
PAROLE IN PUBBLICO | Incontro con la compagnia
Un momento di confronto con le attrici e gli attori della compagnia di Prima per ragionare, insieme al pubblico del teatro, sul lavoro svolto con Pascal Rambert e approfondire i temi dello spettacolo, dal punto vista degli interpreti.
venerdì 5 maggio, ore 17.30, Chiostro Nina Vinchi
con gli attori e le attrici della compagnia modera Anna Piletti, Piccolo Teatro
PREPERFORMANCE TALK
A pochi minuti dal “chi è di scena”, il pubblico e gli operatori del teatro hanno l’occasione di
incontrarsi in un momento informale di confronto sui temi dello spettacolo.
mercoledì 10 maggio, ore 19, Teatro Grassi
PAROLE IN PUBBLICO | Tante care cose! La “Battaglia di San Romano” di Paolo Uccello
Protagonisti del ciclo di incontri “Tante care cose!” sono alcuni oggetti simbolo, le “cose” scelte direttamente dagli artisti e dalle compagnie in cartellone per rappresentare i propri spettacoli.
A interrogarle, di volta in volta, una coppia di invitati speciali: esperti di ambiti diversissimi che, con la complicità di un “moderatore teatrale”, danno vita nell’arco di un’ora o poco più a un confronto dialettico tra reale e immaginario.
L’ultimo appuntamento del ciclo Tante care cose! è dedicato alla “Battaglia di San Romano” di Paolo Uccello, capolavoro del Rinascimento fiorentino che Pascal Rambert ha voluto come
riferimento iconografico del suo Prima. Dipinto “uno e trino” – il trittico originale è oggi diviso e i suoi elementi sono ospitati da tre dei più importanti musei del mondo: Uffizi, Louvre e National Gallery – l’opera del pittore toscano è un oggetto sui generis, che verrà raccontato nella sua dimensione pittorica e “materiale” da Mauro Minardi, storico dell’arte e specialista di pittura italiana del tardo Medioevo e del primo Rinascimento, mentre sarà Chiara Cappelletto, docente di Estetica del performativo presso
l’Università degli Studi di Milano, ad affrontarlo in una prospettiva allargata, tra teoria
dell’immagine e materialità della scena.
venerdì 12 maggio, ore 18, Chiostro Nina Vinchi
con Chiara Cappelletto (professoressa di Estetica del performativo presso l’Università degli Studi di Milano), Mauro Minardi (storico dell’arte); modera Enrico Pitozzi, professore di Discipline dello spettacolo presso l’Università di Bologna.
WALK_TALK | Prima della Prima
«Come nella vita, anche in teatro, esiste un “prima” (le prove), un “durante” (lo spettacolo) e un “dopo” (come la rappresentazione agisce sugli interpreti e sul pubblico)». Così Pascal Rambert a proposito del suo spettacolo. Ed è proprio sulle tracce dei luoghi abitati “prima della prima” – la sala prove, la sartoria, l’attrezzeria… – che si articolerà il percorso, che, a partire dalla sala del Teatro Grassi, condurrà le spettatrici e gli spettatori al Teatro Strehler e ai suoi spazi “dietro le quinte”, in un racconto che assocerà letture tratte dallo spettacolo e frammenti di vita del teatro, “prima” della prima.
sabato 20 maggio, ore 15.30, Teatro Grassi (partenza) e Teatro Strehler (arrivo)
con gli attori e le attrici della compagnia Ingresso gratuito con prenotazione obbligatoria su www.piccoloteatro.org
Piccolo Teatro Grassi (via Rovello, 2 – M1 Cordusio)
dal 29 aprile al 28 maggio
Prima
testo e regia Pascal Rambert
traduzione Chiara Elefante
scene Pascal Rambert e Anaïs Romand
costumi Anaïs Romand
luci Yves Godin
musiche Alexandre Meyer
assistente alla regia Virginia Landi
con (in ordine alfabetico)
Anna Bonaiuto, Anna Della Rosa, Marco Foschi, Leda Kreider, Sandro Lombardi
produzione Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa
in coproduzione con structure production e Compagnia Lombardi-Tiezzi
Orari: martedì, giovedì e sabato, ore 19.30; mercoledì e venerdì, ore 20.30; domenica, ore 16.
Prezzi: platea 40 euro, balconata 32 euro
Informazioni e prenotazioni 02.21126116 – www.piccoloteatro.org