Una ragazza incontra uno scrittore e tra loro nasce un’attrazione reciproca. Lui nasconde un passato di relazioni burrascose, che lei gli chiede di interrompere ad ogni costo. L’amore tra i due diviene nel tempo ossessione e desiderio di reciproca sopraffazione, si trasforma in una relazione tormentata e distruttiva tra amore e odio, sesso e perversione, possessività e autolesionismo. Ma forse si tratta solo di un sogno premonitore, guidato da una voce misteriosa e onnisciente.
La Chiamata dal Cielo è l’ultimo dono del grande regista scomparso nel 2020 in Lettonia. Amatissimo dalla critica, ha realizzato numerosi capolavori nella sua carriera. Dall’esordio con Coccodrillo fino a Pietà, con cui conquistò il Leone d’Oro a Venezia, da Ferro 3 a La samaritana.
Il deserto dei Tartari – La Fortezza
In scena a Napoli presso Galleria Toledo – teatro stabile di innovazione, il 27 e 28 aprile 2023, dopo il successo di critica e pubblico della stagione scorsa, Massimo Roberto Beato cura l’adattamento della vicenda, ideata da Dino Buzzati, del maggiore Giovanni Drogo rievocata nella stanza della locanda dove egli è giunto, malato, costretto suo malgrado, a lasciare la Fortezza sotto assedio.
Nella regia di Jacopo Bezzi, Drogo, seduto su una poltrona mentre osserva fuori dalla finestra la sera e la notte incombente, in quest’ultimo atto di lucidità che precede la sua morte – e che egli vive come la sua “vera battaglia” – procede a ritroso con la mente per approdare a vari momenti della sua vita e domandarsi se essa poteva o doveva essere vissuta diversamente.
Il protagonista è lui, il Tenente Giovanni Drogo, neodiplomato all’Accademia Reale, pronto a prendere servizio alla Fortezza Bastiani, sua prima destinazione. Si agitano in lui sentimenti contrastanti: la pena di lasciare la casa materna, la vita comoda della città e la sensazione che grandi eventi lo stiano aspettando. Una volta giunto però, una nuova indistinta malattia si impossessa lentamente di lui: è l’effetto della malìa esercitata dal deserto che si intravvede dalla Ridotta Nuova al confine con il nord, e dell’infinita attesa dei Tartari, popolo misterioso e leggendario che potrebbe attaccare da un momento all’altro, immortalando gli abitanti della Fortezza in un destino di gloria.
Primo capitolo della “Trilogia degli sconfitti” – progetto di ricerca triennale a cura de “La Compagnia dei Masnadieri” – Il Deserto dei Tartari offre l’occasione, attraverso il personaggio di Drogo, di riflettere sul destino degli ‘anti-soggetti’, coloro che seppur incapaci di adattarsi a un mondo di cui non comprendono le regole, sono tuttavia destinati a viverci. Più o meno consapevoli di essere l’incarnazione di una cultura minoritaria e inesorabilmente condannati al fallimento quando tentano di opporsi all’arbitrarietà e inconsistenza della vita, questi personaggi riescono a realizzare il proprio destino nel momento in cui accettano di combattere, fino in fondo, la battaglia degli sconfitti: consci delle circostanze date essi ingaggiano, infatti, una costante lotta interiore, dagli esiti incerti, per tradurre in atti consapevoli gli ideali superiori di cui sono portatori.
Nella regia di Jacopo Bezzi, Drogo, seduto su una poltrona mentre osserva fuori dalla finestra la sera e la notte incombente, in quest’ultimo atto di lucidità che precede la sua morte – e che egli vive come la sua “vera battaglia” – procede a ritroso con la mente per approdare a vari momenti della sua vita e domandarsi se essa poteva o doveva essere vissuta diversamente.
Il protagonista è lui, il Tenente Giovanni Drogo, neodiplomato all’Accademia Reale, pronto a prendere servizio alla Fortezza Bastiani, sua prima destinazione. Si agitano in lui sentimenti contrastanti: la pena di lasciare la casa materna, la vita comoda della città e la sensazione che grandi eventi lo stiano aspettando. Una volta giunto però, una nuova indistinta malattia si impossessa lentamente di lui: è l’effetto della malìa esercitata dal deserto che si intravvede dalla Ridotta Nuova al confine con il nord, e dell’infinita attesa dei Tartari, popolo misterioso e leggendario che potrebbe attaccare da un momento all’altro, immortalando gli abitanti della Fortezza in un destino di gloria.
Primo capitolo della “Trilogia degli sconfitti” – progetto di ricerca triennale a cura de “La Compagnia dei Masnadieri” – Il Deserto dei Tartari offre l’occasione, attraverso il personaggio di Drogo, di riflettere sul destino degli ‘anti-soggetti’, coloro che seppur incapaci di adattarsi a un mondo di cui non comprendono le regole, sono tuttavia destinati a viverci. Più o meno consapevoli di essere l’incarnazione di una cultura minoritaria e inesorabilmente condannati al fallimento quando tentano di opporsi all’arbitrarietà e inconsistenza della vita, questi personaggi riescono a realizzare il proprio destino nel momento in cui accettano di combattere, fino in fondo, la battaglia degli sconfitti: consci delle circostanze date essi ingaggiano, infatti, una costante lotta interiore, dagli esiti incerti, per tradurre in atti consapevoli gli ideali superiori di cui sono portatori.
Il deserto dei Tartari è una riflessione infinitamente malinconica sul tempo che scorre inesorabile, senza che l’uomo ne abbia percezione nel suo distillare goccia dopo goccia la vita. In un luogo grigio e placido come la Fortezza Bastiani, sorvegliando l’immobile deserto dal quale un giorno o l’altro potrebbero spuntare i temuti Tartari, il tempo sembra non passare mai e il tenente Drogo appena ventenne, ritiene una punizione l’essere stato assegnato di guardia in un posto così ostile. Solo il rapporto sempre più simile, forse, ad un’amicizia con il suo superiore, il capitano Ortiz (interpretato da Massimo Roberto Beato) lo consola dai giorni sempre più simili tra di loro, fino a quando finalmente qualcosa si muove.
Nella regia di Jacopo Bezzi c’è un’impostazione ben precisa nel gestire la
prossemica fra gli attori, nel forgiarli in un corpo che diventa per prima cosa
strumento drammaturgico e anche scenografico. I tre sono distintamente
caratterizzati, accomunati solo dai movimenti cadenzati, quasi fossero soldatini a carica o marionette, imbrigliati nel codice militaresco che impone rigidità e fissità nei movimenti così come nelle parole. L’andamento dei dialoghi segue una modulazione ben delineata, scandendo ogni episodio della vicenda con l’ausilio di fermo immagine accompagnati dalle musiche originali di Giorgio Stefanori.
Nella regia di Jacopo Bezzi c’è un’impostazione ben precisa nel gestire la
prossemica fra gli attori, nel forgiarli in un corpo che diventa per prima cosa
strumento drammaturgico e anche scenografico. I tre sono distintamente
caratterizzati, accomunati solo dai movimenti cadenzati, quasi fossero soldatini a carica o marionette, imbrigliati nel codice militaresco che impone rigidità e fissità nei movimenti così come nelle parole. L’andamento dei dialoghi segue una modulazione ben delineata, scandendo ogni episodio della vicenda con l’ausilio di fermo immagine accompagnati dalle musiche originali di Giorgio Stefanori.
Moon
Moonia dice di essere la Luna, annoiata e disillusa trascorre il tempo cantando al karaoke da sola, fino a quando non si appassiona alle vicende di una giovane ragazza punk intenta a viaggiare in treno senza meta, tra luoghi e situazioni borderline. Finalmente qualcosa di “degno” da seguire per Moonia che, come la Luna, può solo osservare ed essere osservata. Una favola dark ironica e tragica dove personaggi fantasy si confondono con persone ed episodi di cronaca nera. Una performance tra parole e improvvisazioni vocali, tra art-punk e umorismo dell’assurdo.
ADA – collettivo informale per la scena – nasce a Roma nel 2019 da Loredana Antonelli, visual artist e regista video, Lady Maru, dj techno e producer e Pasquale Passaretti, attore, drammaturgo e regista teatrale. ADA produce opere multimediali, di prosa, danza, musica dal vivo, live visual e cinema sperimentale per teatri, cinema, gallerie d’arte e luoghi non convenzionali.
I nostri progetti si propongono di costruire un rapporto dinamico e orizzontale con il pubblico, approfondendo aspetti del contemporaneo con ironia e un linguaggio urbano, frammentario e diretto.
I nostri progetti si propongono di costruire un rapporto dinamico e orizzontale con il pubblico, approfondendo aspetti del contemporaneo con ironia e un linguaggio urbano, frammentario e diretto.
L’unica cosa stabile è il movimento.
L’unique chose stable – c’est le mouvement – partout et toujours. Jean Tinguely, 1966
Una mattina di sole camminando per le vie del Vomero, un leccese e un torinese riflettevano circa cosa, effettivamente, definire delle loro esistenze. Senza dubbio, erano allora miserrime le vite e profonde le creature bastantemente, per poter affiancarsi ennesime, similari creature. Dalle affini qualità, s’intende. Così, con quella che sempre venne portata avanti come “l’intenzione del miracolo” (da qui il titolo della raccolta di verbali di compagnia dal titolo, appunto, “Le cronache del miracolo”) nasce I PORCI. La domanda che al gruppo sorgeva spontanea, trattando spesso e volentieri di cosa, propriamente, potesse essere il teatro, era: “Come riprodurre il miracolo?”. Qualcuno rispose: “Se vedere la madonna è miracolo, beh, la madonna è sublime. Ma il sublime come si fa a replicarlo?” “Il ridicolo!”, sopraggiunse un altro, “Il ridicolo è replicabile sempre. Lo abbiamo sempre sotto gli occhi”. La naturale predisposizione tematica di questo ridicolo parve, immediatamente alla compagnia, essere il machismo. Il materiale mnemonico raccolto non voleva mai essere frutto di fantasie arcaiche, quanto di onorevoli e squallide pratiche di chi solo di pochi anni, ci aveva preceduto. E dei quali portavamo addosso molto più di quanto pensassimo: prima, fra tutti, la piaga di essere maschii.
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