Convince e avvince Il tabarro di Giacomo Puccini/Il castello del Duca Barbablù (A Kékszakállú Herceg Vára) di Béla Bartók, primo dittico del Trittico ricomposto in scena al Teatro dell’Opera di Roma (repliche fino al 18 aprile).
Il Trittico ricomposto è un progetto triennale in in collaborazione con il Festival Puccini di Torre del Lago, fortemente voluto dal Direttore Musicale del teatro, il Maestro Michele Mariotti, acclamato sul podio dell’Orchestra, pensato come inedito omaggio a Puccini in occasione del primo centenario della morte del compositore, nel 2024.
Da una parte si tratta di un reale scardinamento del Trittico composto da Puccini (Il tabarro/Suor Angelica/Gianni Schicchi), ma dall’altra si tratta di un progetto innovativo che convince: a ogni atto pucciniano viene accostato un atto unico del Novecento che ne offra una visione in qualche modo speculare, che omaggi Puccini, che ne esalti le caratteristiche musicali e drammaturgiche più spiccate.
Se l’omaggio a Puccini passa attraverso la sua scomposizione e l’osservazione da un diverso punto di vista, con il Tabarro (del 1919) e Barbablù (del 1911, ma rappresentata per la prima volta nel 1918) vengono accostate due opere quasi coeve affidate alla visione del regista tedesco Johannes Erath, non solo al debutto al Costanzi, ma anche al primo impegno operistico in Italia.
Due opere coeve e tremendamente attuali che parlano di “violenza di genere in due vicende che ci ricordano i troppi casi della cronaca odierna, in cui la donna è schiacciata dall’uomo e da una brutalità oggi più che mai inaccettabile” le parole di Mariotti.
Violenza sulle donne e incomunicabilità all’interno della coppia sono gli elementi centrali delle due opere attraverso lo sguardo del regista tedesco. “Affiancare questi due capolavori ci offre l’occasione rara di osservarli con uno sguardo nuovo – spiega il regista – l’atto unico di Puccini appare molto più simbolista impressionista di quello che si immagina, mentre quello di Bartok è più realista di quanto si immagini”. Per Il Tabarro ecco allora un’innovativa lettura più simbolica che verista, per Barbablù una rilettura simbolica che diventa invece verista nel finale. Le scene essenziali di Katrin Connan, i costumi di tocco realistico per gli uomini, vezzosi e colorati per le donne di Noëlle Blancpain, le luci di luci di Alessandro Carletti, i video di Bibi Abel contribuiscono a creare il fil rouge della messinscena.
Esalta il pubblico la direzione musicale di Mariotti che si divide fra Puccini e Bartók con evidente maturità: di Puccini scandaglia le infinite sfumature nella ricchissima orchestrazione, di Bartók cattura con precisione chirurgica “l’invenzione continua dei colori orchestrali” per ciascun quadro. Musicista, regista, Erath cerca di accostare a ogni frase musicale qualcosa da mettere in scena, per coinvolgere il pubblico, solleticando la sua immaginazione, “facendo sentire con gli occhi e vedere con le orecchie quel che accade in scena”. Il regista rilegge con sguardo simbolista Il tabarro, privandolo di orpelli e liberandolo di una messinscena verista puntando invece sul simbolismo, suscitando non qualche sussulto per i puristi.
Ecco allora che il regista si concede più di qualche libertà offrendo una personale rilettura del dramma fra Giorgetta, Michele e Luigi, che si concretizza in un barcone sulla Senna evocato da ricche immagini multimediali, riproponendo le scene di vita e di personaggi (il venditore di canzonette e gli amanti), che si consumano sulla riva in scena. L’idea centrale è di riproporre una sorta di rappresentazione spazio temporale che ondeggia fra il passato e il presente, fra la cruda realtà, i sogni infranti e le speranze disilluse. Gli scaricatori di Michele sono i lavoranti del teatro, il sogno di libertà di Giorgetta si concretizza nell’immaginare Parigi in una vivace e colorata scena che svela bellissime donne che danzano avvolte in sontuosi adornati di piume, proiezione visibile del suo inconscio. Anche il tabarro in cui Michele cela il corpo esanime di Luigi, scompare per mostrarne il volto attraverso l’immagine sul pannello Giorgetta e Michele sono una coppia usurata che non riesce a comunicare: una coppia distrutta dalla morte del figlioletto, cui Michele ha reagito con una sorta di immobilismo anche emotivo mentre Giorgetta ha scelto di sognare Parigi cercando conforto nell’amante Luigi.
In scena Luca Salsi, acclamato baritono verdiano, ma certamente a suo agio anche nei panni di Michele, sicuro e drammatico nel timbro e sulla scena. Accanto a lui il soprano Maria Agresta, magnifica Giorgetta dalla voce splendida e dalla presenza scenica invidiabile, brillante il Luigi del tenore drammatico Gregory Kunde.
“Bartok e Puccini non intendono fornire i giudizi morali precostituiti – ricorda Mariotti – scandagliano e deludono la psicologia umana, consapevoli di quanto sia complessa mettendoci di fronte a situazioni esistenziali”.
Il Castello del principe Barbablù si apre con un prologo e pone al centro l’incomunicabilità della coppia, la differenza fra uomo e donna pur offrendosi a diverse letture e interpretazioni.
“Il castello di Barbablù inizia con una coppia nella notte: anche in questo caso il loro sforzo di esprimersi e comunicare non porterà alla luce” spiega il regista che punta tutto sul contrasto luce/buio (contando sulla qualità delle luci) e si affida ai video per richiamare le sette porte di Barbablù. Porte non solo reali, ma soprattutto insite nell’animo del principe. Si comincia però con Barbablù che sparecchia una tavola nascondendo quelle che sembrano essere le prove di un delitto.
La scenografia è una sorta di impalcatura con praticabili mobili ed essenziali, con grandi tende e minacciose ombre che si susseguono l’una dopo l’altra: al centro della storia, la fiaba nera del Principe Barbablù, ma soprattutto il gioco al massacro di una coppia.
Lei, Judit, novella sposa di Barbablù, lo incalza di domande per scoprire il mistero del castello dalle sette porte nere sbarrate: lei vuole capire, insiste, lui cerca di schivare le sue domande, di mantenere i suoi spazi e i suoi segreti. Fino allo sgomento finale di Judit, ennesima vittima che dietro la settima porta scopre le altre mogli di Barbablù (le stesse seducenti donne parigine sognate da Giorgetta) mostrando la totale incomunicabilità della coppia e il tentativo di sopraffazione dell’uno sull’altro. La musica racconta un confronto serrato fra uomo e donna, un percorso che va dal buio alla luce per chiudersi con il buio senza speranza.
Il mezzosoprano ungherese Szilvia Vörös è una eccezionale Judit, insistente e appassionata che delinea ogni gamma emotiva del suo personaggio, coadiuvata da un grandioso Mikhail Petrenko, basso russo al debutto al Costanzi, nella parte di Barbablù, intenso e gelido che si appropria della scena con gesti quasi impercettibili. Ultime repliche domenica 16 (ore 16.30) e martedì 18 aprile (ore 20).
Fabiana Raponi