Consorte che scopre consorte che sgama mariti. Oppure all’inverso. Mariti vs. Consorti, di certo, pur di essere sempre e comunque sposati, e al contempo, amanti. La commedia di Dario Fo che ebbe la sua prima assoluta al Piccolo Teatro di Milano nel giugno del 1958, qui riadattata da Filippo Bubbico, nella sua veste di classica commedia deqli equivoci tiene bene il passo e la struttura portante della sua base fondante.
La chiave narrativa, volta a prendere di mira una borghesia incretinita dalla smania di ambire ad avere tutto – che non è mai davvero Tutto ma solo quella parte che sente di dover tuttavia possedere – si sviluppa su una linea diretta a sfogare sensi di colpa malcelati e ingannevoli ottusità. Il ladro penetra nella casa dell’uomo che tenta di nascondere in casa, in momentanea assenza della moglie Anna, la donna, ovvero la sua amante, a sua volta moglie del di lei amante, un certo Antonio. Un tizio che a guardarlo bene, non poteva non essersi sposato, con la scaltra consapevolezza del potersi fare un’amante.
Dove starebbe il problema, in fondo? Forse in case altrui? La figura del ladro, cui viene assegnata un’immagine negativa, si trova lì per volere della moglie che del resto si dichiara maggiormente esperta in furti senza apparente scasso. Gli altri che dimostrano di essere tutt’altro che esperti in furti di mogli e mariti, sono in realtà i migliori ladri, poiché vivono, giacendo, negli accumuli, negli sperperi di capitali, nello sfruttamento di uomini e donne deluse da matrimoni sostanzialmente falliti, perché posti su basi fasulle, sulla predominanza del denaro rispetto ai sentimenti.
Ed è quando c’è da viverli, questi sentimenti, che sopraggiungono i veri problemi. Nessuno vuole veramente esporsi ed aprirsi alla conoscenza. Il nocciolo del senso del testo di Fo, secondo Bubbico, si snoda persino nella esplicitazione dei nervosismi e nelle esitazioni che gli interpreti sanno rendere così bene anche nel parlato, evitando d’inneggiare a virtuosismi della parola, con tonalità prudentemente esagitate.
La scena si dispone dell’interno di un appartamento, quello dell’uomo, composto da due graziosi divanetti e da un mobiletto rosso chiaro, posto al centro, su cui si sono attaccate delle lumache. La resa è progressivamente lenta ma funziona perché ristabilisce il gioco delle parti e dei ruoli, prestabiliti dalla disumana in-coscienza.
Ad un angolo, ci rendono ben visibile e illuminato il telefono dal quale chiama la moglie del ladro, colei che tenta di circuire ogni atto e circostanza, ponendolo sotto il suo stretto controllo e la sua asfissiante osservanza. Il conflitto implode sfogando rapidamente e le fantozziane figure che si auto-indispone il ladro, ottimamente interpretato da un Alberto Mosca in stato di grazia, accompagnato da un cast ben amalgamato da Bubbico, con interpreti capaci di esprimere egregiamente le sfaccettature dell’ipocrisia invadente, rendono brillante il tono senza evidenti forzature.
Serpeggia giusto qualche lieve screziatura che qua e là sembra rimbalzare sul pubblico, togliendo un poco di mordente al buon ritmo, ma che risulta funzionale tuttavia al meccanismo della significanza intrinseca ai contenuti. Si dispiega così, nel crescente e superiore secondo atto (anche a livello recitativo), un funzionale accumulo di gaffe, fino a generare un vero e proprio balletto degli inganni reciproci e affini.
L’amore, in fin dei conti, risulta essere una farsa tra ubriachi che di professione si divertono a rubare. Che si tratti di oggetti o persone, poco importa. Non fa poi molta differenza. Si è sempre un tutt’uno, se non si sovviene al gioco delle private funzioni per nuocere. Anzi. Avanti il prossimo! Il gioco è bello se dura a lungo, contrariamente a quanto si pensi.
Federico Mattioni