Un Mozart ipercritico, amareggiato e astioso fa il bilancio della propria vita lanciando strali alla società salisburghese, all’aristocrazia viennese e perfino all’imperatore.
Consapevole del suo genio e dello scarso riconoscimento ottenuto con la consistente produzione musicale, è particolarmente irritato per il metodico sfruttamento cui è stato sottoposto fin dall’infanzia dal padre che mirava esclusivamente al denaro, denaro, denaro.
Wolfgang Amadeus Mozart ha dovuto ricostruirsi anche il nome, contestando quello di battesimo. L’originario Joannes Chrysostomus Wolfgangus Theophilus non lo riteneva adeguato a rappresentare un musicista, che sarebbe diventato uno dei massimi compositori di ogni epoca. Eliminati i primi due derivati dal Santo del giorno di nascita, mantiene il terzo e trasforma l’ultimo dal greco Theophilus (colui che ama Dio) nell’equivalente latino Amadeus. Insofferente alla desinenza “us” talvolta ironizzava firmandosi Wolfgangus Amadeus Mozartus, ma preferiva appellarsi Amadè.
La messinscena si compone del monologo di Mozart inframmezzato da brani cantati dalla giovane soprano lirico leggero Olimpia Pagni. Dopo il primo brano cantato entra Mozart, annunciato dalla giubba rossa sulla spalliera della poltroncina, punto focale della scenografia sul cui nero fondale sono sospese due cornici disallineate, quasi occhi sbilenchi sull’amara realtà del racconto. Intorno alla poltrona Mozart gira, si accomoda, si sporge in avanti verso il pubblico dei salisburghesi ingrati cui si rivolge, e quali noi spettatori sentiamo di essere.
Compositore, insegnante di musica e maestro di cappella presso la corte dell’arcivescovo cattolico Anton von Firmian, il padre Leopold mette subito a frutto il talento musicale precoce e straordinario del figliolo, che a cinque anni già realizza composizioni. La dedizione del genitore all’affermazione del bambino prodigio lo porta fino alla corte imperiale e a un viaggio in numerose città tedesche, fino a Parigi, Londra e la Svizzera, dove a volte Amadeus si esibisce insieme alla sorella Nannerl.
Con grande enfasi, Mozart continua a narrare come a quattordici anni, ascoltando nella Cappella Sistina il Miserere di Gregorio Allegri, per il quale gravava la scomunica su chiunque se ne fosse impossessato, lo trascrive interamente a memoria, e l’eco della straordinaria impresa giunge fino a Papa Clemente XIV.
Negli anni successivi, a Salisburgo, Amadeus, insoddisfatto di non ottenere un’equa remunerazione e nemmeno la commissione per opere, precipita in uno stato di forte frustrazione e di difficoltà finanziarie, culminate con la morte della madre. La mortificazione per la dignità calpestata di artista lo accompagnerà per parecchio tempo e i problemi economici si ripresenteranno dopo la guerra russo-turca del 1787, poiché alla fama di respiro europeo faceva da contraltare l’assenza di sostegno del pubblico in patria e anche Leopoldo II, succeduto all’imperatore Giuseppe II, non lo sostenne con lo stesso favore.
L’anomalia di Mozart, in un’epoca in cui ancora l’attività concertistica veniva finanziata dalla classe nobiliare, era l’insofferenza per il ruolo subalterno in cui un musicista di corte veniva relegato. L’affrancamento da questa condizione ritenuta umiliante, ponendosi come libero professionista per difendere la dignità di uomo e di compositore, fu per lui fallimentare, alienandogli il favore dei committenti. Tale stato di precarietà lo indusse a sviluppare un rancore profondo e duraturo per l’aristocrazia di corte.
Il successo del Flauto magico, destinato a un pubblico popolare, è immediato e ampio, summa della visione poetica mozartiana, la cui simbologia è ispirata a ideali massonici.
Sul finale, Mozart sostiene di aver deciso di morire per mancanza di amore (della madre, del padre, della moglie, dei sovrani) e di voler comporre un Requiem come testamento musicale e ultimo tributo al suo pubblico, per dimostrare quanto egli l’abbia amato. Un grido di dolore che resterà incompiuto.
Il finale è della musica, e la rappresentazione si conclude con un bis di Olimpia Pagni che, ammiccante e briosa, avvolge col suo canto Mozart assiso in poltrona.
Patrizio Pucello (in arte Paciullo, attore, speaker, showman) offre un’interpretazione istrionica spaziando fra i registri di una recitazione emotiva ed empatica, veicolando l’interiorità del compositore nella sua dolorosa dimensione umana e nell’enfatica dimensione artistica, affrontando con naturalezza il testo di Carlo Picchiotti.
Claudio Boccaccini, regista che riesce a condensare la forza di una drammaturgia nella potenza espressiva della parola e nell’immedesimazione della recitazione, rendendo palpitante anche un palcoscenico sguarnito di scenografia, mette in risalto l’aspetto ironico e fanciullesco del compositore, evidenziandone il profilo umano.
Tania Turnaturi