Opera giovanile del Premio Nobel per la Letteratura Harold Pinter rappresentata per la prima volta a Londra nel 1960, mantiene immutato il misterioso e vago senso di stordimento che scaturisce dall’ambientazione e dal nonsense dei dialoghi sincopati.
In un luogo non-luogo, in un tempo indefinito, due personaggi i cui contorni verranno delineati man mano, trascorrono il tempo in attesa che qualcuno prenda una decisione e affidi loro un incarico.
Ben legge il giornale riferendo assurdi avvenimenti come quello di un tizio che per attraversare una strada intasata di macchine si sdraia sotto un camion, Gus è irrequieto e pone interrogativi su tutto, pur di dire qualcosa. Le sue richieste apparentemente insensate qualcuno sembra esaudirle, come quando alla domanda su come accendere il gas non avendo fiammiferi, improvvisamente si materializza una scatola di cerini.
Ben, autoritario e dispotico, risponde con irritazione e acredine alle domande, cercando un’affermazione di sé che camuffi l’inutilità del loro vivere in perenne attesa di un ordine del mandante che li renda ciò che sono: sicari. Gus, inquieto e nevrotico, sembra volersi sottrarre a quella ineluttabilità che lo pone fuori dal contesto civile. Intanto, impiegano il tempo in sterili discussioni, come se sia giusto dire “accendi l’acqua” anziché “accendi il gas”.
I dialoghi concitati accentuano l’irritabilità dell’uno e l’insofferenza dell’altro e forniscono indizi sul mestiere che svolgono e sul grado di cinismo che caratterizza l’obbligo di essere sempre reperibili, pur lavorando un solo giorno a settimana. Intanto, bisogna ingannare la noia dell’attesa.
Nel corso dei diverbi, un cubo posto sul fondo si illumina: è il calapranzi dal cui interno i due sodali traggono biglietti con indicazioni culinarie, prive di nesso logico, forse informazioni sulla prossima vittima, che aggiungono un’intonazione grottesca al contesto.
In contrapposizione all’ira rabbiosa dell’uno e alla remissività polemica dell’altro, il calapranzi diventa il punto focale della situazione, dentro il quale i due sicari depositano tutto ciò che reperiscono nello zaino di Gus: biscotti, latte, cioccolato, tartine ricevendo in cambio biglietti di rimprovero per quei cibi andati a male. Il potere esercitato da quell’autorità sconosciuta che cala dall’alto sotto forma di ‘pizzini’ inappropriati o insensati suscita nei due killer uno stato di disagio e di angoscia che aumenta ogni volta che, sempre dall’alto, penzolano parallelepipedi luminosi che, catalizzando l’attenzione, diventano inquietanti elementi di disturbo e metafora di un ‘esterno’ minaccioso e alienante contrapposto a un ‘interno’ claustrofobico e oppressivo.
L’irrazionalità del contesto e la futilità dei messaggi alimentano una suspense che sfocia nella paura dell’oscurità, di un nemico ignoto, fino al colpo di scena finale che imporrà, forse, ai due una decisione.
Capolavoro del ‘teatro dell’assurdo’ che ha sovvertito le regole della drammaturgia del secondo Novecento, il testo procede con un ritmo incalzante di minacciose illogicità e sottile ironia, nonostante non succeda nulla di concreto. Si concretizza, invece, l’assunto di Pinter che l’individuo viene distrutto dal potere occulto calato dall’alto.
L’interpretazione apparentemente spontanea di Simone Colombari (Ben) e Claudio (Greg) Gregori (Gus), che curano anche la regia, vira progressivamente verso la tragedia attraverso i loro naturali registri surreali, che accentuano il grottesco sotteso all’intrinseca spietatezza del racconto.
Tania Turnaturi